Sono sempre arrabbiata
La rabbia è il fuoco della tua anima. Vuole far ardere il tuo cuore per mostrarti il dolore.
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La rabbia è il fuoco della tua anima. Vuole far ardere il tuo cuore per mostrarti il dolore.
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A volte ascoltarsi è difficile; spesso l’attenzione è proiettata fuori di noi e i pensieri che ci attraversano sono molti…
Imparare ad Ascoltarsi Leggi tutto »
Per anni ho vissuto nella paura, oggi finalmente ne posso parlare con serenità e desidero condividere la mia esperienza. Spero possa aiutare chi vuole proteggersi dallo stalking. E’ stata una dura prova, non avrei mai pensato di attraversare un’esperienza simile. Proprio io, che cerco di curare le mie relazioni… E certo non mi sarei mai aspettata che una persona così vicina, diventasse come un nemico da cui proteggermi.La mia tolleranza alle sue azioni di sopruso e molestia non facevano altro che legittimare quelle stesse azioni, ma anche l’agire per proteggermi ne provocava altre più gravi. Appena sentivo un rumore mi mettevo in allerta e mi attivavo con videocamera o macchina fotografica o registratore… Non era più vita. Mi sono accorta che mi ero quasi abituata a quello stato di lenta e continuo stalking. Già, perché le azioni che subivo, prese singolarmente non erano poi così gravi, e portavo pazienza nella speranza che avesse un termine, che l’altro cambiasse. Ad un certo punto ho detto basta! Basta subire! Basta alla logica del “lascia perdere, vedrai che cambia, poi gli passa…” e ho denunciato.Denunciare una persona di famiglia per qualcuno sembra una cosa peccaminosa o vergognosa. Anche questo non è stato facile da vivere, da qualcuno ero considerata quella che sbagliava. Forse per loro l’immagine era più importante della giustizia. Ho trovato anche molti alleati sul mio cammino che mi hanno aiutata e sostenuta tantissimo, a cui sono molto grata. Degli angeli in carne ed ossa. Fondamentale è stato il supporto di un percorso di counseling, mi ha aiutato a prendere consapevolezza delle mie varie emozioni, del mio blocco interiore, dell’illusione di avere il controllo sulla situazione, per poi cambiare e trovare la mia via di liberazione. Mi sono resa conto di come il mio stalker fosse in fondo vittima a sua volta della sua stessa infelicità, della sua rabbia, invidia, e del suo dolore. Incredibile è stato vivere anche alcune assurdità, come il carabiniere che difende lo stalker, o il giudice che si infastidisce perché deve occuparsi di un reato banale e che solo dopo molto mesi capisce la gravità della situazione, finalmente condannando per stalking ad un anno e sei mesi e a un notevole risarcimento danni. Ne sono uscita! E ho imparato a proteggermi, forse proprio questo dà senso a tutto quello che è successo. Ho trovato la forza per fare un grande cambiamento nella mia vita e ora ne sono felice. Questa è la mia vera vittoria. Tante persone hanno contribuito alla stesura di questa storia di stalking, le firme purtroppo sono molte. 7 SUGGERIMENTI PER CHI VIVE LO STALKING Eccoti alcuni consigli molto pratici che sono utili per non soccombere, per gestire le varie emozioni e per proteggersi dallo stalking. Che anche tu possa contribuire a interrompere la violenza, per tornare a vivere con serenità. Elena Mazzoleni Vuoi raccontarci anche tu la tua storia? Scrivici!
Stalking: 7 modi per proteggersi Leggi tutto »
La mia vita si divide tra lavoro e lavoro. Non so chi sono. Ho dolori ovunque, prendo medicinali, ma non mi fermo. Devo aprire il bar domani. Mi dico: “se no come faccio? E i conti sono in rosso e l’affitto e i debiti e cosa penseranno di me i miei genitori…” E la mia ragazza. Da quanto non parliamo, da quanto non la ascolto, da quanto non mi ascolto? Sento che l’ansia mi prende e stringe forte il petto. Piango, la mattina mentre vado al lavoro e la sera prima di addormentarmi. Sono stanco, dormo 5 o 6 ore a notte. Un giorno la mia ragazza mi guarda e dice cosa hai sulla lingua? Cosa sono quei pallini bianchi? Poi l’operazione, la paura, l’impotenza. Il non poter fare niente, come se fossi uno spettatore della mia vita. Tutto bene: operazione riuscita, ma il resto dei problemi c’è, e pesa! Mi rendo conto di essere in burn out. O meglio, i miei genitori mi fanno sedere ad un tavolo con la mia ragazza e io scoppio in lacrime. Mi rendo conto che non posso andare avanti così, devo allentare la presa, devo prendermi cura di me e della mia vita, dei miei affetti. Così alla mia ragazza capita in mano un libro che parla di meditazione, e poi un incontro speciale con Amma. Comincio a meditare. Comincio a cercare la mia strada. Dopo vendo l’attività e trovo un altro impiego. Piano piano cerco di rimettere insieme i cocci della mia vita, la meditazione mi ha aiutato, ora sento un contatto con me, anche se lieve, come una guida che cerca di farsi comprendere e che io raramente riesco ad ascoltare appieno. Sento che dentro me c’è molto e che spesso non lo comprendo, decido che forse è tempo di ascoltare realmente cosa ho dentro. La meditazione mi aiuta moltissimo, ma fermarsi soltanto a quel punto non mi porta crescita, decido di iscrivermi al corso di Core Counseling dell’associazione MoviMente. Neanche sapevo cosa fosse. Non avevo idea che la relazione d’aiuto potesse aiutare così tanto me stesso in primis e poi gli altri. Così un po’ spaesato telefono, chiedo un colloquio. Sono sincero: dico che non so nulla su cosa facciano e che non ho la minima esperienza, medito soltanto e decido di essere qua solo per seguire quella vocina interna che tanto ho ignorato. Ho trovato persone accoglienti e professionali. Fin dal primo colloquio sento che chi ho di fronte sente quello che sto dicendo, mi ascolta e comprende con il cuore. Non solo parole in quell’incontro, anche un lungo silenzio, con uno sguardo aperto sui nostri cuori. Mi ha profondamente toccato. In quel preciso momento ho capito che la strada era quella giusta. Non intendo che sarà o meno la mia professione, intendo dire che sono al posto giusto per la mia crescita personale, per sentirmi, per imparare a prendermi cura di me . Dopo un anno e mezzo di corso mi sento grato per aver permesso l’ ascoltarmi. Mi sento onorato di far parte di quel gruppo di persone che cercano di cambiare il proprio mondo. Vedo i cambiamenti in me e nei miei compagni di gruppo, mi riempie di gioia. Oggi più che mai, ho bisogno di guardarmi dentro e avere ben chiaro i miei intenti. La cosa più bella é che non servono prerequisiti speciali. Ho già tutto quello di cui necessito! Sebastiano
Come ho cambiato vita Leggi tutto »
Cosa sono i trigger emotivi? Sono situazioni o persone che provocano in noi reazioni eccessive e sproporzionate. Spesso sono l’espressione di antiche ferite che hanno bisogno di essere curate. Per disinnescare i nostri trigger ci viene in aiuto l’intelligenza emotiva
Come migliorare la tua Intelligenza Emotiva Leggi tutto »
Ti aspettiamo per un prezioso viaggio interiore. Meditare è anche un’azione interiore che crea.
Incontro gratuito di Meditazione Creativa Leggi tutto »
Perdonare è un atto di coraggio capace di sanare le ferite. La prossima edizione sarà in autunno…
7 Giorni per perdonare, il percorso che ti libera Leggi tutto »
sogni « Che ne è stato dei sogni di quando eravate bambini?» È stata proprio questa domanda ad attirare la mia attenzione sfogliando una rivista francese di psicologia. Come non fermarsi a riflettere, non interrogarsi, non frugare nei meandri più reconditi della memoria – o forse del cuore – alla ricerca di quei sogni? Come non chiedersi se si sono realizzati o se, al contrario, sono rimasti accuratamente riposti sul fondo di un cassetto? La forza di quei sogni era tale da pervadere il corpo intero, sollecitare tutte le energie; che sensazioni suscitavano queste visioni oniriche a occhi aperti? Felicità, libertà, appagamento. Tutto sembrava possibile, persino diventare astronauti, famosi ballerini, attori, scrittori, sommozzatori… Non c’erano limiti. Che sorte è toccata a quei sogni, o meglio che cosa ne abbiamo fatto? In che cosa si è trasformato l’entusiasmo con il quale annunciavamo che da grandi avremmo attraversato il Pacifico in barca a vela, visitato il Buthan in sacco a pelo, acquistato un cavallo, scoperto un’altra piramide, trovato la cura per una malattia rara? A ben vedere qualche piccolo desiderio si è avverato, magari non siamo diventati esploratori, ma ci siamo concessi una vacanza avventurosa; non siamo diventate étoiles del balletto, ma abbiamo frequentato con piacere corsi di danza. Attimi di vita in cui il nostro bambino interiore ha gioito con soddisfazione dicendo «Ce l’ho fatta». Magari alcuni di noi hanno avuto la caparbietà e quel pizzico di fortuna in più e sono oggi l’avvocato, l’interprete, il chirurgo che avevano sognato di diventare. Altri, al contrario, si sentono spettatori della propria vita: dissuasi dai familiari, disillusi dalle circostanze, obbligati dalla situazione economica o in nome di una presunta razionalità hanno intrapreso strade diverse da quelle che avevano creduto essere destinate loro, e adesso guardando il disegno di un serpente boa che digerisce un elefante non riescono a vedere altro che un cappello. Sono diventati adulti e non ricordano più di essere stati bambini. L’autrice dell’articolo – una psicoanalista di nome Laurence Lemoine – segnala come «la malattia dell’anima occidentale», già diagnosticata da Carl Gustav Jung all’inizio del secolo scorso, sia ormai ampiamente diffusa: pessimismo crescente, sfiducia nei confronti delle istituzioni e del prossimo, sensazione di non essere giustamente valorizzati, senso di insoddisfazione e frustrazione, percezione di “vivere a metà” e, conseguentemente, voglia di abbandonare tutto e fuggire in un mondo utopicamente ideale. Sognare un’altra vita o lasciarsi trascinare passivamente in questa? Penso alla mia vita, agli anni trascorsi, ai giorni presenti, al futuro che deve ancora disvelarsi. Forse la soluzione è legittimare il proprio bisogno di realizzazione interiore, di autenticità. Il fine, la sfida è avere la forza, il coraggio di diventare se stessi – liberandosi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalla paura del giudizio degli altri – e seguire le proprie aspirazioni. Ho pensato spesso di aver fallito, di aver sprecato il tempo che mi è stato fino a ora concesso. Per anni sono stata talmente abituata a reprimere i miei desideri, la mia vera essenza, che non ricordo nemmeno più esattamente quali fossero i miei sogni, so solo che avrei voluto realizzare qualcosa di importante come sconfiggere la fame nel mondo, aiutare i bambini abbandonati, dare rifugio a tutti i cani e i gatti randagi, proteggere e ascoltare le persone deboli e indifese… Progetti ambiziosi, utopici. Se la bambina che fui potesse vedermi, parlarmi, che cosa mi direbbe? Sarebbe contenta di come sono diventata? Riterrebbe realizzati i propri sogni? Probabilmente mi scruterebbe con i suoi grandi occhi sognanti, mi accarezzerebbe il viso disegnandone ogni ruga con le sue dita sottili, scuoterebbe il capo, poi mi prenderebbe per mano e mi inviterebbe a giocare, a saltare, a ballare, a disegnare, a liberare i colori che custodisco dentro di me. Tempo fa, risvegliandomi in ambulanza dopo aver perso conoscenza in un incidente stradale, rividi in un istante la mia vita: una trentina di anni sfilarono di fronte a me simultaneamente; li guardai a uno a uno, come se solo in quel momento mi fosse stata data la facoltà di comprendere davvero ciò che era accaduto, e mi chiesi quale sarebbe stato il bilancio se la mia vita fosse finita in quel momento. Ci vollero un secondo incidente, un ginocchio fratturato, sei mesi di riabilitazione per convincermi che avevo sbagliato strada e che spettava a me invertire la rotta. Decisi di nuotare controcorrente: mollai il lavoro e ricominciai da zero, iscrivendomi nuovamente all’università… Non importa se non siamo diventati archeologi, scienziati, se non abbiamo ricevuto un Nobel o non siamo stati a capo di una spedizione in Antartide, se non siamo diventate quelle che ci hanno indotto a credere siano le persone di successo: ciò che conta è cercare la propria essenza e concedersi il diritto di desiderare, di sognare, di essere felici… «Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto» (W. Shakespeare). Velda A. FB counseling
peso Da allora sono tramontati circa novemilaottocentocinquantacinque soli. Non ricordo esattamente il giorno, né l’ora, ricordo solo che era una fredda e umida mattina di marzo del 1994, diciassette anni compiuti da poco. Scalza, il corpo infreddolito coperto solo da una maglietta bianca – troppo lunga, troppo larga – ho guardato con orrore lampeggiare in carattere rosso il peso del mio goffo involucro mortale: 47. Lo stesso rito, compiuto una, due, tre, quattro volte al giorno, senza candele, senza preghiere, senza santi ai quali fare offerte: solo io con il mio dolore, il mio vuoto, solo quei numeri rossi lampeggianti, in caduta libera – 45, 43, 41, 38 –, mentre il mio corpo – odiosa zavorra – spariva lentamente in vestiti troppo grandi per essere i miei. 5.50: il corpo abbandonato sotto un lenzuolo stropicciato, aspettavo a occhi chiusi nel silenzio del sole appena sorto che la sveglia suonasse frantumandomi l’anima, chiedendomi come ogni giorno di morire in una vita che non sentivo mia. Un’attesa angosciante, poi un cicalio improvviso, crescente e il vuoto riprendeva le forme di sempre: camicia, jeans, scarpe, uno zaino stanco di libri, quaderni, appunti ormai ingialliti, testimoni inconsapevoli della mia storia da riscrivere; i sogni, quelli no, rimanevano assopiti nel dormiveglia di un cassetto. In sella al mio scooter vagavo nell’inferno di strade e palazzi, respirando aria stantia di polvere e noia, troppo ossessionata dal senso del dovere o forse troppo vigliacca per non recarmi ogni mattina in quella scuola. Ripenso a occhi chiusi a quelle stanze, mattatoio per la mia anima, accecanti nella luce del giorno, spettrali nell’oscurità della notte, i muri intrisi di fumo, di voci, di vite consunte. Per arrivare in classe dovevo passare davanti a una chiesa, sulla porta c’era l’invito a entrare per recitare una preghiera di ringraziamento; osservavo gli zaini depositati all’ingresso: in collera con il mondo e forse anche con il cielo, ripetevo a me stessa che l’invito non mi riguardava, ero morta da tempo. Il mio fantasma entrava in classe, distribuiva i quaderni a compagni troppo impegnati a divertirsi per fare i compiti, poi giaceva inerme, guardando traballare le ore, in attesa che il suono della campanella segnasse la temporanea fine del supplizio. Ero sola con «L’estranea inseparabile da me». I mesi correvano capricciosi, indistinguibili nell’alternarsi delle stagioni. I numeri rossi rotolavano come sassi dal pendio di una montagna – 37, 35, 34 –, io con essi. I capelli erano sempre più radi, sottili, sfibrati come paglia secca; gli occhi consunti dalle lacrime erano incavati, circondati da aloni violacei, gli zigomi sporgenti; le guance prosciugate lasciavano intravedere i denti che si consumavano; la vita indicibilmente sottile, le costole visibili a una a una; braccia e gambe nient’altro che ossa protese come rami secchi pronti a morire. Per ingannare la fame bevevo un litro di tè nero ogni giorno, passavo ore a sfogliare libri di ricette rigorosamente illustrati, oppure cucinavo e respirando il profumo del cibo il mio stomaco, ormai ridotto a una mela avvizzita, si convinceva di essere pieno. Non mettevo in bocca nulla che non fosse rigorosamente frammentato in piccoli pezzi, pesato, misurato, arrivai a bere con il cucchiaino per illudermi che il latte o il succo di frutta fossero molto più di mezzo bicchiere. Non c’era alimento del quale ignorassi il valore nutrizionale: il conteggio delle calorie era una vera e propria ossessione, una schiavitù. In realtà il mio corpo non aveva nemmeno un filo di adipe, ero un mucchio di ossa tenute approssimativamente insieme da uno strato sottile di pelle disidratata; antropofaga di me stessa, avevo ormai mangiato tutti i muscoli per sopravvivere qualche giorno in più. Ero onesta con me e con gli altri: ammettevo di essere ammalata; avrei voluto, forse, ma non sapevo come salvarmi dal mio carnefice, che per giunta ospitavo in qualche anfratto del mio corpo. Dopo la maturità decisi più meno consapevolmente di prolungare l’agonia iscrivendomi a Giurisprudenza. Il fumo della metropolitana, il fischio del treno, camminate interminabili in una Milano da odiare… Cambiava il teatro, la commedia era sempre la stessa. Una mela dimenticata sul fondo di uno zaino, un litro di tè nero al quale si era aggiunto un litro di caffè solubile, venti grammi di riso mangiati chicco a chicco, mezzo bicchiere di latte bevuto con il cucchiaino; il cuore che batteva lento per lo sforzo, il respiro sempre più affannoso, la vista annebbiata, i margini dei libri con l’annotazione della data e della frase di sveviana memoria ultimo digiuno. Noiosissimi libri di diritto vomitati alla luce del giorno, intramontabili romanzi classici divorati nelle notti passate alla disperata ricerca di una risposta. Dormivo sempre meno, al massimo due ore per notte, avevo paura del sonno, temevo di non svegliarmi più. Vegliavo avvolta in chilometri di coperte incapaci di riscaldare quello che ormai era un involucro gelido, opalescente come il marmo di un obitorio. Non so trovare le parole per descrivere quel freddo: penetrava come un liquido iniettato in vena, entrava in circolo rapidamente, forse era pompato dal cuore al posto del sangue. Gli sguardi disperati di chi crudelmente ancora mi amava e mi osservava impotente sparire, quelli abbassati di chi in me vedeva l’immagine della propria morte; le liti furiose dei miei genitori: la mia malattia era ormai diventata per loro un pretesto per abbandonarsi alle loro futili discussioni fondate sul nulla. Braccata da ricordi stinti e senza nome, nel tintinnio delle ore che passavano, mi sforzavo di ricordare la mia morte, in qualche luogo doveva pur essere avvenuta se ciò che sentivo non era un corpo, ma un dolore pressante. Un bagno di sudore freddo, una fitta in mezzo al petto, una vertigine nauseante, un brivido massacrante, poi il vuoto assoluto, improvviso, nel buio che feriva la vista mi sembrò di vedere il mio corpo: giaceva pallido, composto sul letto sfatto, le palpebre abbassate sull’ultimo tramonto, le labbra schiuse in una poesia interrotta; né fiori, né lacrime, né un lume acceso. Lo accarezzai in viso gridando silenziosamente « Il corpo è morto »; nessuno
Il peso del vuoto Leggi tutto »
L’intelligenza emotiva è il nostro “cuore pensante”, un insieme di abilità che ci permettono di vivere serenamente la nostra vita interiore e relazionale. Le principali competenze dell’intelligenza emotiva sono la consapevolezza di sé, la capacità di saper gestire le nostre emozioni e comprendere quelle degli altri.
Intelligenza Emotiva nella vita Leggi tutto »
Tutto cominciò quando accettai l’inaspettata proposta di lavorare per un progetto di Cooperazione Internazionale in Bolivia. Il mio cassetto dei sogni si spalancò e recuperai nascosto sul fondo il sogno di partire per una missione…
di Thich Nhat Hanh con Non dire che domani scomparirò,perché io arrivo sempre. Guarda in profondità: io arrivo ogni secondo,per essere un germoglio sul ramo a primavera;per essere un minuscolo uccellino con le ali ancora fragiliche impara a cantare nel suo nido; per essere un bruco nel cuore di un fiore,per essere un gioiello che si nasconde in una pietra.Io arrivo sempre, per ridere e per piangere,per temere e per sperare. Il ritmo del mio cuore è la nascita ela morte di tutto ciò che è vivo.Io sono un insetto che muta la sua forma sulla superficie di un fiume. E io sono l’uccello che, a primavera, arriva a mangiare l’insetto.Io sono una rana che nuota felice nell’acqua chiara di uno stagno.E io sono il serpente che, avvicinandosi in silenzio, divora la rana.Sono un bambino in Uganda, tutto pelle e ossa, le mie gambe esili come canne di bambù,e io sono il mercante di armi che vende armi mortali all’Uganda. Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.Io sono un membro del Politburo, con tanto potere a disposizione. E io sono l’uomo che deve pagare il ‘debito di sangue’ alla mia gente,morendo lentamente in un campo di lavori forzati.La mia gioia è come la primavera, così splendente che da sbocciare i fiori su tutti i sentieri della vita.Il mio dolore è come un fiume in lacrime, così gonfio che riempie tutti i quattro oceani. Per favore chiamatemi con i miei veri nomi,cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risa insieme;cosicché io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono una cosa sola.Per favore chiamatemi con i miei veri nomi,cosicché io mi possa svegliaree cosicché la porta del mio cuore sia lasciata aperta,la porta della compassione. FB MoviMente
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mi L’arte dell’addomesticamento nel Piccolo Principe: Un viaggio nell’amicizia e nella crescita personale Il capolavoro letterario “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry continua a incantare lettori di tutte le età con la sua saggezza senza tempo. Tra i tanti insegnamenti preziosi che questo libro ci offre, uno dei più toccanti e profondi è il concetto di “addomesticamento”, esplorato attraverso l’incontro tra il piccolo principe e la volpe. Il significato dell’addomesticamento Nel contesto del libro, l’addomesticamento non ha nulla a che fare con il domare o sottomettere. Al contrario, rappresenta il processo di creazione di legami, di stabilire una connessione unica e speciale tra due esseri. La volpe chiede al piccolo principe di essere addomesticata, insegnandoci una lezione fondamentale sull’amicizia e sull’amore. Lezioni di vita dalla volpe Rilevanza contemporanea In un’epoca di connessioni digitali fugaci e relazioni superficiali, il messaggio del Piccolo Principe sull’addomesticamento è più pertinente che mai. Ci ricorda l’importanza di coltivare relazioni profonde e significative, di prenderci il tempo per conoscere veramente gli altri e permettere loro di conoscere noi. L’impatto duraturo La storia del piccolo principe e della volpe continua a risuonare con lettori di tutte le età perché tocca una verità universale sulla natura umana: il nostro bisogno di connessione e di essere visti per chi siamo veramente. L’addomesticamento, come descritto nel libro, è un processo di reciproca scoperta e apprezzamento. Una lezione per tutte le età Mentre i bambini possono apprezzare la storia a un livello più letterale, gli adulti trovano in essa una profonda metafora per le loro relazioni personali e professionali. Il concetto di addomesticamento ci invita a riflettere su come trattiamo gli altri e su quanto siamo disposti ad aprirci e ad essere vulnerabili nelle nostre relazioni. Conclusione “Il Piccolo Principe” non è solo un libro per bambini; è una guida poetica per navigare le complessità delle relazioni umane. La lezione sull’addomesticamento ci ricorda che le connessioni più preziose nella vita richiedono tempo, cura e un cuore aperto. In un mondo che spesso valorizza la velocità e l’efficienza sopra ogni cosa, questa storia ci invita a rallentare, a prestare attenzione e a coltivare i legami che rendono la nostra vita veramente ricca. Che si tratti di amicizie, relazioni romantiche o legami familiari, il principio dell’addomesticamento ci incoraggia a vedere l’unicità in ogni persona e a trattare ogni relazione come il tesoro che è. In questo modo, come il piccolo principe, possiamo scoprire la bellezza e il significato nascosti nella semplicità della vita quotidiana. fb counseling
Come mi puoi Addomesticare Leggi tutto »
libero Ho liberato i miei genitori dalla sensazione di avere fallito con me.Ho liberato i miei figli dal bisogno di portare orgoglio per me; che possano scrivere e percorrere le loro proprie vie secondo i loro cuori, che sussurrano tutto il tempo alle loro orecchie.Ho liberato il mio uomo dall’obbligo di completarlo, di completarmi. Non mi manca niente, imparo per tutto il tempo, insieme a tutti gli esseri. Mi piacciano o non mi piacciano. Ringrazio i miei nonni e antenati che si sono riuniti affinché oggi io respiri la Vita.Li libero dai fallimenti del passato e dai desideri che non hanno portato a compimento, consapevole che hanno fatto del loro meglio per risolvere le loro situazioni all’interno della coscienza di quell’istante. Li onoro, li amo e li riconosco innocenti. Io mi denudo davanti a tutti gli occhi, che sanno che non nascondo né devo nulla oltre ad essere fedele a me stessa e alla mia stessa esistenza, e che camminando con la saggezza del cuore, sono consapevole che il mio unico dovere è perseguire il mio progetto di vita, libera da legami familiari invisibili e visibili che possono turbare la mia pace e felicità. Queste sono le mie uniche responsabilità.Rinuncio al ruolo di Salvatrice, di essere colei che unisce o soddisfa le aspettative degli altri. Imparando attraverso, e soltanto attraverso l’amore, benedico la mia essenza e il mio modo di esprimerla, anche se qualcuno potrebbe non capirmi.Capisco me stessa, perché solo io ho vissuto e sperimentato la mia storia; perché mi conosco, so chi sono, quello che sento, quello che faccio e perché lo faccio.Mi rispetto e approvo.Io onoro la divinità in me e in te… siamo liberi. Antica Benedizione dedicata alla Dea IxChel e tradotta dalla lingua Nahuatl parlata, a partire dal VII sec., nella Regione Centrale del Messico. FB Counseling
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Vivi. Inizia ora. Inizia qui. E’ gratis! Vuoi regalarti una svolta nella tua vita? Ti facciamo un dono prezioso. Fanne buon uso. Puoi scaricare il file gratuitamente, clicca sull’immagine di seguito: Grazie: Il mondo intero ne beneficia quando le persone fanno ciò che amano fonte: http://www.hostingtransformation.eu/workbook/ http://www.hostingtransformation.eu/wp-content/uploads/2017/04/EWorkbookletItalian.pdf FB counseling
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