Il pianto

La disgrazia di non piangere è una delle più crudeli ne’ sommi dolori.
Silvio Pellico

Un bel pianto a dirotto, che arriva all’ improvviso, dopo aver tanto sofferto, combattuto, sopportato: la diga si apre, la tensione si allenta. E’ il segnale che qualcosa, nella resistenza dell’ individuo, ha ceduto; eppure il pianto – contrariamente a quanto molti si ostinano a pensare – può avere una funzione benefica, rappresenta un’ importante forma di comunicazione, contribuisce ad avvicinare le persone.

Di recente, si è anche allargata l’ accettazione sociale di chi piange: lo fanno più apertamente gli uomini, e perfino i politici in situazioni pubbliche, che segnalano così, forse non del tutto ingenuamente, di non avere un cuore di pietra. Al pianto hanno dedicato uno studio Maria Miceli e Cristiano Castelfranchi dell’ Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR di Roma, pubblicando i risultati sulla rivista New Ideas in Psychology.
Secondo i due ricercatori, il motivo psicologico basilare e comune a tutte le forme di pianto è rappresentato dalla sensazione di impotenza, di impossibilità a reagire di fronte a una frustrazione. Finché la persona intravede una via di uscita, finché è disponibile a lottare, non piangerà: le lacrime arriveranno quando non ci sarà più speranza di farcela (quanto meno, da soli) o, invece, quando la difficoltà sarà superata.
Nel primo caso, però, chi piange, pur non avendo più forza di lottare, spera ancora di poter ricevere un aiuto. Se si va oltre questo confine, allora anche il pianto – che tra le sue principali funzioni comunicative ha proprio la richiesta di aiuto – perde di senso, come dimostrano certi bambini piccoli gravemente trascurati, che a un certo punto non piangono neanche più.
«Le persone piangono in una grande varietà di situazioni, – dicono Miceli e Castelfranchi – per rabbia, umiliazione, colpa o ansietà, in seguito a un fallimento, un conflitto, una delusione o uno scoraggiamento». Un esame dettagliato di queste situazioni e dei meccanismi psicologici sottostanti dimostra ad esempio che il dolore fisico genera le lacrime solo quando è di sufficiente intensità o si presenta sotto la sinistra veste del dolore che potrebbe non finire mai.
Quella che è forse la più tipica situazione di pianto, ben conosciuta dagli innamorati di tutto il mondo (e in particolare dagli ex innamorati), è la sensazione di aver perso irrimediabilmente il partner, cosa che poi, nella realtà, per fortuna non è sempre vera.
Un altro tipico evento che scatena le lacrime è la sensazione di aver fallito. Anche in questo caso, a prevalere è la sensazione che “non ci sia più niente da fare”. Rabbia e colpa «Non solo il fallimento reale, ma anche la semplice minaccia può suscitare una sensazione di impotenza e quindi il pianto» spiegano i ricercatori. «Lo scoraggiamento può insorgere di fronte a un ostacolo imprevisto o ancora prima di agire, se si inizia a capire che il successo non è probabile». Poi c’ è la rabbia: una delle motivazioni meno ovvie per il pianto, dal momento che a questo sentimento sono associate l’ aggressione e la lotta. Ma quando un contrattacco è giudicato impossibile, anche solo per motivi di convenienza sociale, ci si ritrova in quella condizione di impotenza che può far scattare le lacrime. Dicono Miceli e Castelfranchi: «Probabilmente non è un caso che il piangere per rabbia sia ancora oggi più tipico delle donne che degli uomini, dal momento che questi sono più abituati ad affrontare direttamente i conflitti». Infine, ci sono le lacrime legate ai sensi di colpa, in cui la sensazione basilare di impotenza sarebbe quella di aver causato un danno irreparabile a qualcuno o aver infranto una norma morale.
Anche gli uomini piangono.
Oggi il pianto maschile è più accettato socialmente. Lo dimostrano il pianto di Ivano Brugnetti, oro ad Atene nei 20 km di marcia e quello di Sergio Cofferati alla commemorazione per Massimo D’ Antona.
Effetti positivi
Uno sfogo che aiuta anche a conoscersi meglio. Piangere fa bene, perché rappresenta uno sfogo, ed è esperienza comune che dopo il pianto la tensione interiore si allenta. Eppure, se è vero che si riduce la tensione, non sempre si riduce l’ intensità dei sentimenti stessi. Ci sono situazioni in cui il fatto stesso di esprimere con le lacrime quello che si sta provando, fa sì che lo si percepisca in modo più acuto. E’ quello che avviene per il pianto di gioia, che, in qualche modo, fa provare un sentimento ancora più intenso. Un altro effetto positivo del pianto è quello di consentire un recupero di tutta la catena di sentimenti che hanno portato alle lacrime, quindi una funzione di comprensione del percorso emotivo fatto. Ma le lacrime sono anche un mezzo per comunicare una richiesta di aiuto, possono segnalare una forma di protesta nei confronti dell’ altro, una richiesta di riparazione o di perdono.
Tra gli effetti negativi del pianto, invece, la riprovazione che chi piange può attirare su di sé, non solo da parte degli altri, ma anche di se stesso, fino alla pericolosa perdita dell’ autostima: essendo un’ implicita dichiarazione di impotenza, il pianto può infatti favorire un’ immagine di “perdente”.
Gli altri tipi di commozione Felici… fino alle lacrime
Per fortuna, non si piange solo per le proprie sventure. Il pianto “empatico”, ad esempio, è comune e frequente quanto quello da separazione e perdita. Chi piange per empatia lo fa perché si identifica con la persona che piange e condivide la sua sensazione d’ impotenza, o gliela attribuisce in base alla situazione. Così accade che chi è esposto a un evento spiacevole soffra senza piangere, mentre chi assiste inizia a piangere.
Poi c’ è il più allegro di tutti: il pianto di gioia. In questo caso una spiegazione possibile è che le persone piangano perché hanno la consapevolezza della fugacità e della sostanziale falsità di ogni forma di felicità. Ma, spiegano Miceli e Castelfranchi: «C’ è di più: quello che sembra tipico del pianto di gioia è l’ esistenza di una qualche precedente di preoccupazione. Si tende a piangere di gioia quando gravi problemi e sforzi difficilmente coronabili da successo vanno a buon fine, inducendo sorpresa e sollievo». Si piange per la ricostruzione retrospettiva delle vicissitudini passate, il ricordo di tutte quelle volte nelle quali si è avuta la sensazione di non farcela, con una forma di autocommiserazione retrospettiva per tutto quello che si è patito. La piena consapevolezza di questo sentimento si raggiunge solo al momento del successo, nell’ ora della gioia, bagnata però dalle lacrime.
Infine, il più misterioso, il pianto “estetico”, in cui l’ individuo è sopraffatto da un traboccante senso di appagamento, che si accompagna alla consapevolezza di star vivendo un’ esperienza di unica ed eccezionale bellezza. «Si ha la sensazione di essere toccati da qualcosa che è per molti versi “sublime”, termine che non necessariamente comporta grandiosità» dicono i ricercatori. «Non limitiamo questo sentimento al confronto con manifestazioni grandiose, quali l’ immensità del mare o l’ impetuosa violenza di una tempesta. Riteniamo che il pianto estetico possa essere evocato anche da cose minuscole e ordinarie, purché le si senta permeate di un’ infinita, straordinaria, unica bellezza». In tal caso, la sensazione d’ impotenza alla base del pianto sarebbe legata all’ irrimediabile incapacità di cogliere in profondità il significato dell’ esperienza e di esprimere le emozioni provate. Alla fin fine, un’ espressione del senso di “pochezza” e imperfezione degli esseri umani.

Di Diodoro Danilo

Corriere Salute 7 novembre 2004