sogni
« Che ne è stato dei sogni di quando eravate bambini?»
È stata proprio questa domanda ad attirare la mia attenzione sfogliando una rivista francese di psicologia. Come non fermarsi a riflettere, non interrogarsi, non frugare nei meandri più reconditi della memoria – o forse del cuore – alla ricerca di quei sogni? Come non chiedersi se si sono realizzati o se, al contrario, sono rimasti accuratamente riposti sul fondo di un cassetto?
La forza di quei sogni era tale da pervadere il corpo intero, sollecitare tutte le energie; che sensazioni suscitavano queste visioni oniriche a occhi aperti? Felicità, libertà, appagamento.
Tutto sembrava possibile, persino diventare astronauti, famosi ballerini, attori, scrittori, sommozzatori… Non c’erano limiti.
Che sorte è toccata a quei sogni, o meglio che cosa ne abbiamo fatto? In che cosa si è trasformato l’entusiasmo con il quale annunciavamo che da grandi avremmo attraversato il Pacifico in barca a vela, visitato il Buthan in sacco a pelo, acquistato un cavallo, scoperto un’altra piramide, trovato la cura per una malattia rara?
A ben vedere qualche piccolo desiderio si è avverato, magari non siamo diventati esploratori, ma ci siamo concessi una vacanza avventurosa; non siamo diventate étoiles del balletto, ma abbiamo frequentato con piacere corsi di danza. Attimi di vita in cui il nostro bambino interiore ha gioito con soddisfazione dicendo «Ce l’ho fatta».
Magari alcuni di noi hanno avuto la caparbietà e quel pizzico di fortuna in più e sono oggi l’avvocato, l’interprete, il chirurgo che avevano sognato di diventare. Altri, al contrario, si sentono spettatori della propria vita: dissuasi dai familiari, disillusi dalle circostanze, obbligati dalla situazione economica o in nome di una presunta razionalità hanno intrapreso strade diverse da quelle che avevano creduto essere destinate loro, e adesso guardando il disegno di un serpente boa che digerisce un elefante non riescono a vedere altro che un cappello. Sono diventati adulti e non ricordano più di essere stati bambini.
L’autrice dell’articolo – una psicoanalista di nome Laurence Lemoine – segnala come «la malattia dell’anima occidentale», già diagnosticata da Carl Gustav Jung all’inizio del secolo scorso, sia ormai ampiamente diffusa: pessimismo crescente, sfiducia nei confronti delle istituzioni e del prossimo, sensazione di non essere giustamente valorizzati, senso di insoddisfazione e frustrazione, percezione di “vivere a metà” e, conseguentemente, voglia di abbandonare tutto e fuggire in un mondo utopicamente ideale.
Sognare un’altra vita o lasciarsi trascinare passivamente in questa?
Penso alla mia vita, agli anni trascorsi, ai giorni presenti, al futuro che deve ancora disvelarsi. Forse la soluzione è legittimare il proprio bisogno di realizzazione interiore, di autenticità. Il fine, la sfida è avere la forza, il coraggio di diventare se stessi – liberandosi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalla paura del giudizio degli altri – e seguire le proprie aspirazioni.
Ho pensato spesso di aver fallito, di aver sprecato il tempo che mi è stato fino a ora concesso. Per anni sono stata talmente abituata a reprimere i miei desideri, la mia vera essenza, che non ricordo nemmeno più esattamente quali fossero i miei sogni, so solo che avrei voluto realizzare qualcosa di importante come sconfiggere la fame nel mondo, aiutare i bambini abbandonati, dare rifugio a tutti i cani e i gatti randagi, proteggere e ascoltare le persone deboli e indifese… Progetti ambiziosi, utopici.
Se la bambina che fui potesse vedermi, parlarmi, che cosa mi direbbe? Sarebbe contenta di come sono diventata? Riterrebbe realizzati i propri sogni? Probabilmente mi scruterebbe con i suoi grandi occhi sognanti, mi accarezzerebbe il viso disegnandone ogni ruga con le sue dita sottili, scuoterebbe il capo, poi mi prenderebbe per mano e mi inviterebbe a giocare, a saltare, a ballare, a disegnare, a liberare i colori che custodisco dentro di me.
Tempo fa, risvegliandomi in ambulanza dopo aver perso conoscenza in un incidente stradale, rividi in un istante la mia vita: una trentina di anni sfilarono di fronte a me simultaneamente; li guardai a uno a uno, come se solo in quel momento mi fosse stata data la facoltà di comprendere davvero ciò che era accaduto, e mi chiesi quale sarebbe stato il bilancio se la mia vita fosse finita in quel momento. Ci vollero un secondo incidente, un ginocchio fratturato, sei mesi di riabilitazione per convincermi che avevo sbagliato strada e che spettava a me invertire la rotta. Decisi di nuotare controcorrente: mollai il lavoro e ricominciai da zero, iscrivendomi nuovamente all’università…
Non importa se non siamo diventati archeologi, scienziati, se non abbiamo ricevuto un Nobel o non siamo stati a capo di una spedizione in Antartide, se non siamo diventate quelle che ci hanno indotto a credere siano le persone di successo: ciò che conta è cercare la propria essenza e concedersi il diritto di desiderare, di sognare, di essere felici… «Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto» (W. Shakespeare).
Velda A.