Il peso del vuoto

peso

Da allora sono tramontati circa novemilaottocentocinquantacinque soli.

Non ricordo esattamente il giorno, né l’ora, ricordo solo che era una fredda e umida mattina di marzo del 1994, diciassette anni compiuti da poco.

Scalza, il corpo infreddolito coperto solo da una maglietta bianca – troppo lunga, troppo larga – ho guardato con orrore lampeggiare in carattere rosso il peso del mio goffo involucro mortale: 47.

Lo stesso rito, compiuto una, due, tre, quattro volte al giorno, senza candele, senza preghiere, senza santi ai quali fare offerte: solo io con il mio dolore, il mio vuoto, solo quei numeri rossi lampeggianti, in caduta libera – 45, 43, 41, 38 –, mentre il mio corpo – odiosa zavorra  – spariva lentamente in vestiti troppo grandi per essere i miei.

5.50: il corpo abbandonato sotto un lenzuolo stropicciato, aspettavo a occhi chiusi nel silenzio del sole appena sorto che la sveglia suonasse frantumandomi l’anima, chiedendomi come ogni giorno di morire in una vita che non sentivo mia. Un’attesa angosciante, poi un cicalio improvviso, crescente e il vuoto riprendeva le forme di sempre: camicia, jeans, scarpe, uno zaino stanco di libri, quaderni, appunti ormai ingialliti, testimoni inconsapevoli della mia storia da riscrivere; i sogni, quelli no, rimanevano assopiti nel dormiveglia di un cassetto.

In sella al mio scooter vagavo nell’inferno di strade e palazzi, respirando aria stantia di polvere e noia, troppo ossessionata dal senso del dovere o forse troppo vigliacca per non recarmi ogni mattina in quella scuola. Ripenso a occhi chiusi a quelle stanze, mattatoio per la mia anima, accecanti nella luce del giorno, spettrali nell’oscurità della notte, i muri intrisi di fumo, di voci, di vite consunte.

Per arrivare in classe dovevo passare davanti a una chiesa, sulla porta c’era l’invito a entrare per recitare una preghiera di ringraziamento; osservavo gli zaini depositati all’ingresso: in collera con il mondo e forse anche con il cielo, ripetevo a me stessa che l’invito non mi riguardava, ero morta da tempo. Il mio fantasma entrava in classe, distribuiva i quaderni a compagni troppo impegnati a divertirsi per fare i compiti, poi giaceva inerme, guardando traballare le ore, in attesa che il suono della campanella segnasse la temporanea fine del supplizio. 

Ero sola con «L’estranea inseparabile da me».

I mesi correvano capricciosi, indistinguibili nell’alternarsi delle stagioni. I numeri rossi rotolavano come sassi dal pendio di una montagna – 37, 35, 34 –, io con essi.

I capelli erano sempre più radi, sottili, sfibrati come paglia secca; gli occhi consunti dalle lacrime erano incavati, circondati da aloni violacei, gli zigomi sporgenti; le guance prosciugate lasciavano intravedere i denti che si consumavano; la vita indicibilmente sottile, le costole visibili a una a una; braccia e gambe nient’altro che ossa protese come rami secchi pronti a morire. Per ingannare la fame bevevo un litro di tè nero ogni giorno, passavo ore a sfogliare libri di ricette rigorosamente illustrati, oppure cucinavo e respirando il profumo del cibo il mio stomaco, ormai ridotto a una mela avvizzita, si convinceva di essere pieno.

Non mettevo in bocca nulla che non fosse rigorosamente frammentato in piccoli pezzi, pesato, misurato, arrivai a bere con il cucchiaino per illudermi che il latte o il succo di frutta fossero molto più di mezzo bicchiere. Non c’era alimento del quale ignorassi il valore nutrizionale: il conteggio delle calorie era una vera e propria ossessione, una schiavitù.

In realtà il mio corpo non aveva nemmeno un filo di adipe, ero un mucchio di ossa tenute approssimativamente insieme da uno strato sottile di pelle disidratata; antropofaga di me stessa, avevo ormai mangiato tutti i muscoli per sopravvivere qualche giorno in più. 

Ero onesta con me e con gli altri: ammettevo di essere ammalata; avrei voluto, forse, ma non sapevo come salvarmi dal mio carnefice, che per giunta ospitavo in qualche anfratto del mio corpo.

Dopo la maturità decisi più  meno consapevolmente di prolungare l’agonia iscrivendomi a Giurisprudenza. Il fumo della metropolitana, il fischio del treno, camminate interminabili in una Milano da odiare… Cambiava il teatro, la commedia era sempre la stessa. Una mela dimenticata sul fondo di uno zaino, un litro di tè nero al quale si era aggiunto un litro di caffè solubile, venti grammi di riso mangiati chicco a chicco, mezzo bicchiere di latte bevuto con il cucchiaino; il cuore che batteva lento per lo sforzo, il respiro sempre più affannoso, la vista annebbiata, i margini dei libri con l’annotazione della data e della frase di sveviana memoria ultimo digiuno. 

Noiosissimi libri di diritto vomitati alla luce del giorno, intramontabili romanzi classici divorati nelle notti passate alla disperata ricerca di una risposta. Dormivo sempre meno, al massimo due ore per notte, avevo paura del sonno, temevo di non svegliarmi più. Vegliavo avvolta in chilometri di coperte incapaci di riscaldare quello che ormai era un involucro gelido, opalescente come il marmo di un obitorio. Non so trovare le parole per descrivere quel freddo: penetrava come un liquido iniettato in vena, entrava in circolo rapidamente, forse era pompato dal cuore al posto del sangue. 

Gli sguardi disperati di chi crudelmente ancora mi amava e mi osservava impotente sparire, quelli abbassati di chi in me vedeva l’immagine della propria morte; le liti furiose dei miei genitori: la mia malattia era ormai diventata per loro un pretesto per abbandonarsi alle loro futili discussioni fondate sul nulla.

Braccata da ricordi stinti e senza nome, nel tintinnio delle ore che passavano, mi sforzavo di ricordare la mia morte, in qualche luogo doveva pur essere avvenuta se ciò che sentivo non era un corpo, ma un dolore pressante.

Un bagno di sudore freddo, una fitta in mezzo al petto, una vertigine nauseante, un brivido massacrante, poi il vuoto assoluto, improvviso, nel buio che feriva la vista mi sembrò di vedere il mio corpo: giaceva pallido, composto sul letto sfatto, le palpebre abbassate sull’ultimo tramonto, le labbra schiuse in una poesia interrotta; né fiori, né lacrime, né un lume acceso.

Lo accarezzai in viso gridando silenziosamente « Il corpo è morto »; nessuno se ne accorse. Seduta sul davanzale della finestra, le gambe ciondoloni, osservai il mio povero corpo morto. Non so dire se si trattò di un sogno o se per un attimo l’anima uscì dal corpo, so solo che rimasi a letto, come pietrificata fino a quando i passi di mia mamma nel corridoio mi diedero la certezza di essere ancora viva.

Era un sabato mattina di fine maggio, forse di inizio giugno, non ricordo nemmeno l’anno. Nello specchio un’estranea era di fronte a me: il volto cadaverico, gli occhi vitrei, la pelle grigiastra, le labbra livide, le mani così scarne da poter appartenere a uno scheletro, lo sterno sporgente, anche e glutei un unico osso informe, gli anelli della colonna visibili come i gradini di una scala a pioli.

Mi coprì il viso con le mani, provai a parlare, spiando furtiva nel pertugio apertosi fra le dita: le labbra si muovevano, una voce lontana come proveniente dall’oltretomba mi riportò l’eco delle parole che avevo pronunciato. Non avevo più dubbi, quell’estranea allo specchio ero io. Sobbalzai impaurita, chiusi gli occhi naufragati nelle lacrime: che cosa avevo fatto?

Corsi in bagno, interrogai come fossero un oracolo i numeri rossi: impietosi lampeggiarono incerti 28.8, 29.00. Tornai in camera, aprì una scatola di latta, presi il metro da sarta fatto con una fettuccia bianca, misurai tremando la circonferenza della coscia: trenta centimetri.

Le voci nella stanza accanto ovattate, la vista offuscata, il cuore batteva con esasperante lentezza, il mio respiro un sibilio quasi impercettibile… In quell’attimo capii che era giunto il momento di scegliere se levare gli ormeggi e partire, o restare e plasmarmi nel peso di una forma, bella o brutta che fosse.

Non voler morire non bastava più: scelsi di vivere.

L’incubo non era finito, non veramente, non per me che ero rimasta a vagare in quell’inferno più a lungo di quanto non avessi vissuto nel mondo dei vivi, alla luce del sole.

Il mio corpo, stremato dai digiuni, privato da anni di ogni sostentamento cominciò a mangiare da solo: gli concedevo un biscotto, si prendeva tutto il pacchetto e un altro, e un altro ancora, poi un barattolo di fagioli, un vaso di marmellata, un litro di latte, tre mele, un pezzo di parmigiano… andava avanti così, incurante delle mie lacrime, finché stremato, in preda alla nausea, si convinceva di essere saturo e si accasciava pesantemente sul divano, ostinandosi a trattenere per sé sino all’ultimo grammo di ciò che aveva ingurgitato senza alcun criterio.

Cominciai la mia faticosa risalita chiedendo aiuto a una dietista, supportai il suo lavoro con l’omeopatia, l’agopuntura, i fiori di Bach, la meditazione, il reiki, la psicoanalisi e infine il counseling.

Sono caduta altre volte, non importa quante e non importa nemmeno che le racconti: mi sono sempre rialzata. Ci sono voluti anni per trovare un equilibrio, per quanto precario possa essere, per guardarmi allo specchio e fare le smorfie a quel diavoletto malefico che di tanto in tanto ancora adesso deforma il mio corpo facendolo apparire il quadruplo di quello che è, per convivere con il vuoto anziché cercare di colmarlo o di sprofondarci dentro, per mettere un punto, premere il tasto reset e ricominciare da zero, ricominciare da me. 

Con il tempo ho imparato a smettere di chiedermi perché è successo, come sarebbe adesso la mia vita se non avessi gettato nel cesso oltre cinquemila albe. È successo, semplicemente doveva succedere, era necessario passare attraverso quel tunnel per diventare la persona che sono: ossimoricamente fragile e forte, umile e fiera… Fiera di aver saputo chiedere aiuto.

Velda A.

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