
«Sindrome fibromialgica cronica con dolore alla pressione in corrispondenza di tutti i tender points».
L’inequivocabile diagnosi fu pronunciata la vigilia di Ferragosto, inappellabile come una sentenza passata in giudicato. Già in fase di colloquio anamnestico il reumatologo affermò che il mio quadro sintomatico era talmente evidente da non lasciare dubbi e da rendere quasi superflua la visita, che comunque eseguì scrupolosamente, appurando come l’esperienza non l’avesse ingannato.
Mi ero presentata nel suo studio di mia iniziativa, indirizzata da una sua paziente fibromialgica, incontrata un paio di mesi prima nella RSA in cui era ricoverata mia nonna; le era bastato vedermi camminare zoppicando, devastata dal mal di schiena, avvolta in un foulard e in un pullover di cotone nonostante il termometro segnasse 35°, con un alone violaceo intorno agli occhi, per comprendere che verosimilmente condividevamo la stessa sorte. Non nutrivo particolare stima nei confronti dei medici, ma dovetti ricredermi quantomeno nei confronti di quell’uomo in camice bianco che, con spiazzante sincerità, affermò di non capire come a nessuno prima di allora fosse venuto almeno il sospetto di quale potesse essere il mio problema.
Con altrettanta schiettezza mi spiegò che avevo appunto una forma seria di sindrome fibromialgica, una malattia invalidante la cui eziopatogenesi era – ed è – sconosciuta, per la quale non esistevano – e non esistono – cure; non sarei mai guarita, tutt’al più ci sarebbero state brevi fasi di quiete apparente, alternate alle crisi alle quali del resto ero ormai abituata. Mi illustrò l’importanza del riposo, della riduzione e gestione dello stress, dell’adozione di uno stile di vita confacente, dell’attività fisica dolce – ricordo che con imbarazzo usò l’espressione «ginnastica per la terza età».
Non fu un fulmine a ciel sereno, in fondo me l’aspettavo, mentirei se sostenessi il contrario. In sala d’attesa avevo avuto modo di leggere su una rivista medica i sintomi principali e quelli cosiddetti collaterali della fibromialgia; mi ero così avventurata in una sorta di gioco che echeggiava grottescamente quello che si faceva da bambini con le figurine: “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”. Se quei sintomi fossero stati figurine sarei stata prossima a completare l’album: li avevo quasi tutti.
Dolore spontaneo, diffuso e lancinante ai muscoli, ai tendini ai legamenti, sensazione di bruciore, crampi, formicolii, dolore alla cervicale, stanchezza cronica, perdita della forza, contratture muscolari, rigidità, disturbi del sonno, problemi di circolazione con conseguente freddo alle estremità, acufeni, sindrome dell’occhio secco, fotofobia, mal di testa, disfagia, vertigini, gastrite, colon irritabile, cistite abatterica, dispea, dolore toracico,
dolore alla mandibola e dolori facciali, tachicardia ed extrasistole, secchezza delle mucose e della pelle, dolore alle mani, parestesie, gola irritata, spasmi muscolari, dolore ai seni nasali come in caso di sinusite, prurito, intolleranze e allergie, ipersensibilità a qualunque stimolo esterno (sonoro, luminoso, olfattivo, tattile), spasmi incontrollati degli arti inferiori e superiori, mal di denti e ipersensibilità ai colletti dentari, ansia… la lista potrebbe continuare.
Uscii dallo studio del reumatologo armata di una lettera con scritta nera su bianco la diagnosi, accompagnata dalla prescrizione di medicinali che denunciavano l’inadeguatezza della medicina di fronte a tale sindrome: antidepressivi, miorilassanti e antiepilettici. Non li comprai nemmeno. Tra le righe mi era stato detto chiaramente che per fare effetto avrei dovuto assumere dosaggi elevati, peraltro difficilmente compatibili con le mie numerose allergie ai farmaci.
Percorrendo i labirintici corridoi che mi condussero di nuovo all’aria aperta, passai mentalmente in rassegna tutte le visite alle quali mi ero sottoposta, tutti i medici che mi avevano visitata – in alcuni casi sarebbe più corretto dire vista – nel corso degli anni. Peregrinazioni inutili sfociate in una serie infinita ed estenuante di umiliazioni. A prescindere dai disturbi fisici che avevo sopportato fino a quel momento, mi resi conto di quanto male mi avesse creato l’atteggiamento di superiorità e sufficienza mostrato dai sedicenti professionisti che avevo avuto la sfortuna di incontrare, di quanta sofferenza mi avessero creato la loro mancanza di empatia, la loro incapacità di ascoltarmi veramente, la superficialità con la quale avevano liquidato i miei sintomi.
Per loro ero semplicemente “un’artista della somatizzazione”, una sorta di visionaria che nell’incapacità di gestire situazioni quotidiane e stimoli stressanti li trasformava in sintomi fisici. Come solitamente avviene nel caso di pazienti fibromialgici, clinicamente non vi erano alterazioni rilevanti a livello ematico, radiografico, ecografico, neurologico, perciò nessuno si era mai preso né il tempo né la pena di dedicarsi a una diagnosi differenziale, era sempre stato più facile liquidarmi, cercando di convincermi che il problema ero io.
Alla fine persino i miei familiari avevano smesso di credermi, la stanchezza cronica veniva scambiata per pigrizia, per mancanza di volontà, mentre gli altri disturbi erano solo e soltanto «paturnie». Arrivai inevitabilmente a convincermene almeno in parte io stessa, tant’è che per la paura di essere giudicata e per dimostrare che non ero una scansafatiche mi sottoponevo a sforzi e a ritmi di vita insostenibili.
Salendo in auto mi apparve chiaro che fino a quel momento mi ero scontrata contro un muro di inettitudine, ma che cosa sarebbe cambiato? Avevo una diagnosi: come avrei dovuto e potuto affrontare il futuro? Il primo passo da compiere mi sembrava evidente: cambiare sia il medico di base, sia il medico che mi seguiva privatamente da anni a causa della scarsa professionalità del primo. Non che fossero incompetenti o impreparati in senso assoluto, non stava – e non sta – a me giudicarlo, ma la loro visione nei miei confronti era stata distorta, il loro atteggiamento non sarebbe di certo mutato e comunque il rapporto di fiducia esistente – per quanto estremamente precario – si era spezzato.
Confesso che rabbia, sconforto, senso di impotenza, sfiducia offuscarono a lungo il mio sguardo e le mie giornate. Mi sentivo come don Chisciotte nella sua strenua e vana lotta contro i mulini a vento. Era – ed è tuttora – maledettamente difficile spiegare la sofferenza celata dietro la fibromialgia; mi sentivo – e a volte mi sento – invisibile, perché sapevo che le persone che mi circondavano in cuor loro non smettevano di credere che in fondo il mio malessere fosse frutto di autosuggestione.
Ci sono voluti mesi per reagire, per trovare una reumatologa che rispetti la mia esigenza di non assumere farmaci tradizionali, una fisioterapista che sappia davvero come trattare un paziente fibromialgico, un’omeopata realmente preparata disposta a dedicarmi il suo tempo e le sue attenzioni, un’insegnante di yoga capace di guidarmi dolcemente, senza forzare il mio corpo, una Counselor sensibile in grado di aiutarmi a cambiare il punto di vista chiedendomi «Che cosa ti sta insegnando la tua malattia?».
Non è stato facile comprendere che il modo migliore per combattere la fibromialgia è accettarla, accettare i limiti che mi impone; il che non significa rassegnarsi, trascinarsi passivamente giorno dopo giorno, o accanirsi sfinendosi nella fallimentare ricerca di una pozione magica che possa far scomparire ogni sintomo, bensì apprendere ad ascoltare il proprio corpo, a essere pazienti e amorevoli con se stessi, a prendersi cura in prima persona delle proprie esigenze senza giudicarsi, a concedersi il diritto di essere stanchi, di dire “no”, di coricarsi quando i dolori sono eccessivi, di chiedere aiuto.
Senza dubbio ho intrapreso un sentiero alternativo rispetto a quello solitamente proposto ai pazienti fibromialgici, lungo e scosceso, che verosimilmente mi accompagnerà per il resto della mia vita, ma sono convinta che anche questa malattia faccia parte di un necessario percorso di consapevolezza.
« In una scala da 1 a 10 che voto darebbe alla qualità della sua vita?»
È la domanda che mi è stata posta lo scorso anno in occasione di un ricovero ospedaliero per cause indipendenti dalla fibromialgia. Di primo acchito la parola qualità con riferimento alla mia vita mi è sembrata alquanto inopportuna, persino derisoria; considerata la mia età, i dolori che sopporto, lo sfinimento che caratterizza le mie giornate, le limitazioni anche a livello lavorativo che la fibromialgia comporta, avrei voluto scrivere a caratteri cubitali “zero”.
Non ricordo esattamente come ho risposto a tale spinoso quesito, non so nemmeno come risponderei in questo momento. Ho dormito pochissimo a causa del mal di schiena, sto faticando a convincere le dita a muoversi sulla tastiera del pc e ho la sensazione che un branco di lupi famelici mi stia rosicchiando le gambe… probabilmente, in mancanza dello zero, avrei dapprima la tentazione di rispondere 1, poi scriverei un seppur incerto 6, giusto per dare fiducia alla vita e ringraziarla perché comunque io ci sono e non sono la mia malattia.
Velda A.
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