Testimonianze

Il dolore ineffabile

«Sindrome fibromialgica cronica con dolore alla pressione in corrispondenza di tutti i tender points». L’inequivocabile diagnosi fu pronunciata la vigilia di Ferragosto, inappellabile come una sentenza passata in giudicato. Già in fase di colloquio anamnestico il reumatologo affermò che il mio quadro sintomatico era talmente evidente da non lasciare dubbi e da rendere quasi superflua la visita, che comunque eseguì scrupolosamente, appurando come l’esperienza non l’avesse ingannato. Mi ero presentata nel suo studio di mia iniziativa, indirizzata da una sua paziente fibromialgica, incontrata un paio di mesi prima nella RSA in cui era ricoverata mia nonna; le era bastato vedermi camminare zoppicando, devastata dal mal di schiena, avvolta in un foulard e in un pullover di cotone nonostante il termometro segnasse 35°, con un alone violaceo intorno agli occhi, per comprendere che verosimilmente condividevamo la stessa sorte. Non nutrivo particolare stima nei confronti dei medici, ma dovetti ricredermi quantomeno nei confronti di quell’uomo in camice bianco che, con spiazzante sincerità, affermò di non capire come a nessuno prima di allora fosse venuto almeno il sospetto di quale potesse essere il mio problema.  Con altrettanta schiettezza mi spiegò che avevo appunto una forma seria di sindrome fibromialgica, una malattia invalidante la cui eziopatogenesi era – ed è – sconosciuta, per la quale non esistevano – e non esistono – cure; non sarei mai guarita, tutt’al più ci sarebbero state brevi fasi di quiete apparente, alternate alle crisi alle quali del resto ero ormai abituata. Mi illustrò l’importanza del riposo, della riduzione e gestione dello stress, dell’adozione di uno stile di vita confacente, dell’attività fisica dolce – ricordo che con imbarazzo usò l’espressione «ginnastica per la terza età».  Non fu un fulmine a ciel sereno, in fondo me l’aspettavo, mentirei se sostenessi il contrario. In sala d’attesa avevo avuto modo di leggere su una rivista medica i sintomi principali e quelli cosiddetti collaterali della fibromialgia; mi ero così avventurata in una sorta di gioco che echeggiava grottescamente quello che si faceva da bambini con le figurine: “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”. Se quei sintomi fossero stati figurine sarei stata prossima a completare l’album: li avevo quasi tutti. Dolore spontaneo, diffuso e lancinante ai muscoli, ai tendini ai legamenti, sensazione di bruciore, crampi, formicolii, dolore alla cervicale, stanchezza cronica, perdita della forza, contratture muscolari, rigidità, disturbi del sonno, problemi di circolazione con conseguente freddo alle estremità, acufeni, sindrome dell’occhio secco, fotofobia, mal di testa, disfagia, vertigini, gastrite, colon irritabile, cistite abatterica, dispea, dolore toracico, dolore alla mandibola e dolori facciali, tachicardia ed extrasistole, secchezza delle mucose e della pelle, dolore alle mani, parestesie, gola irritata, spasmi muscolari, dolore ai seni nasali come in caso di sinusite, prurito, intolleranze e allergie, ipersensibilità a qualunque stimolo esterno (sonoro, luminoso, olfattivo, tattile), spasmi incontrollati degli arti inferiori e superiori, mal di denti e ipersensibilità ai colletti dentari, ansia… la lista potrebbe continuare.   Uscii dallo studio del reumatologo armata di una lettera con scritta nera su bianco la diagnosi, accompagnata dalla prescrizione di medicinali che denunciavano l’inadeguatezza della medicina di fronte a tale sindrome: antidepressivi, miorilassanti e antiepilettici. Non li comprai nemmeno. Tra le righe mi era stato detto chiaramente che per fare effetto avrei dovuto assumere dosaggi elevati, peraltro difficilmente compatibili con le mie numerose allergie ai farmaci.  Percorrendo i labirintici corridoi che mi condussero di nuovo all’aria aperta, passai mentalmente in rassegna tutte le visite alle quali mi ero sottoposta, tutti i medici che mi avevano visitata – in alcuni casi sarebbe più corretto dire vista – nel corso degli anni. Peregrinazioni inutili sfociate in una serie infinita ed estenuante di umiliazioni. A prescindere dai disturbi fisici che avevo sopportato fino a quel momento, mi resi conto di quanto male mi avesse creato l’atteggiamento di superiorità e sufficienza mostrato dai sedicenti professionisti che avevo avuto la sfortuna di incontrare, di quanta sofferenza mi avessero creato la loro mancanza di empatia, la loro incapacità di ascoltarmi veramente, la superficialità con la quale avevano liquidato i miei sintomi. Per loro ero semplicemente “un’artista della somatizzazione”, una sorta di visionaria che nell’incapacità di gestire situazioni quotidiane e stimoli stressanti li trasformava in sintomi fisici. Come solitamente avviene nel caso di pazienti fibromialgici, clinicamente non vi erano alterazioni rilevanti a livello ematico, radiografico, ecografico, neurologico, perciò nessuno si era mai preso né il tempo né la pena di dedicarsi a una diagnosi differenziale, era sempre stato più facile liquidarmi, cercando di convincermi che il problema ero io. Alla fine persino i miei familiari avevano smesso di credermi, la stanchezza cronica veniva scambiata per pigrizia, per mancanza di volontà, mentre gli altri disturbi erano solo e soltanto «paturnie». Arrivai inevitabilmente a convincermene almeno in parte io stessa, tant’è che per la paura di essere giudicata e per dimostrare che non ero una scansafatiche mi sottoponevo a sforzi e a ritmi di vita insostenibili.  Salendo in auto mi apparve chiaro che fino a quel momento mi ero scontrata contro un muro di inettitudine, ma che cosa sarebbe cambiato? Avevo una diagnosi: come avrei dovuto e potuto affrontare il futuro? Il primo passo da compiere mi sembrava evidente: cambiare sia il medico di base, sia il medico che mi seguiva privatamente da anni a causa della scarsa professionalità del primo. Non che fossero incompetenti o impreparati in senso assoluto, non stava – e non sta – a me giudicarlo, ma la loro visione nei miei confronti era stata distorta, il loro atteggiamento non sarebbe di certo mutato e comunque il rapporto di fiducia esistente – per quanto estremamente precario – si era spezzato.  Confesso che rabbia, sconforto, senso di impotenza, sfiducia offuscarono a lungo il mio sguardo e le mie giornate. Mi sentivo come don Chisciotte nella sua strenua e vana lotta contro i mulini a vento. Era – ed è tuttora – maledettamente difficile spiegare la sofferenza celata dietro la fibromialgia; mi sentivo – e a volte mi sento – invisibile, perché sapevo che le persone che mi circondavano in cuor loro non smettevano di credere che in fondo

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Stalking: 7 modi per proteggersi

Per anni ho vissuto nella paura, oggi finalmente ne posso parlare con serenità e desidero condividere la mia esperienza. Spero possa aiutare chi vuole proteggersi dallo stalking. E’ stata una dura prova, non avrei mai pensato di attraversare un’esperienza simile. Proprio io, che cerco di curare le mie relazioni… E certo non mi sarei mai aspettata che una persona così vicina, diventasse come un nemico da cui proteggermi.La mia tolleranza alle sue azioni di sopruso e molestia non facevano altro che legittimare quelle stesse azioni, ma anche l’agire per proteggermi ne provocava altre più gravi. Appena sentivo un rumore mi mettevo in allerta e mi attivavo con videocamera o macchina fotografica o registratore… Non era più vita. Mi sono accorta che mi ero quasi abituata a quello stato di lenta e continuo stalking. Già, perché le azioni che subivo, prese singolarmente non erano poi così gravi, e portavo pazienza nella speranza che avesse un termine, che l’altro cambiasse. Ad un certo punto ho detto basta! Basta subire! Basta alla logica del “lascia perdere, vedrai che cambia, poi gli passa…” e ho denunciato.Denunciare una persona di famiglia per qualcuno sembra una cosa peccaminosa o vergognosa. Anche questo non è stato facile da vivere, da qualcuno ero considerata quella che sbagliava. Forse per loro l’immagine era più importante della giustizia. Ho trovato anche molti alleati sul mio cammino che mi hanno aiutata e sostenuta tantissimo, a cui sono molto grata. Degli angeli in carne ed ossa. Fondamentale è stato il supporto di un percorso di counseling, mi ha aiutato a prendere consapevolezza delle mie varie emozioni, del mio blocco interiore, dell’illusione di avere il controllo sulla situazione, per poi cambiare e trovare la mia via di liberazione. Mi sono resa conto di come il mio stalker fosse in fondo vittima a sua volta della sua stessa infelicità, della sua rabbia, invidia, e del suo dolore. Incredibile è stato vivere anche alcune assurdità, come il carabiniere che difende lo stalker, o il giudice che si infastidisce perché deve occuparsi di un reato banale e che solo dopo molto mesi capisce la gravità della situazione, finalmente condannando per stalking ad un anno e sei mesi e a un notevole risarcimento danni. Ne sono uscita! E ho imparato a proteggermi, forse proprio questo dà senso a tutto quello che è successo. Ho trovato la forza per fare un grande cambiamento nella mia vita e ora ne sono felice. Questa è la mia vera vittoria. Tante persone hanno contribuito alla stesura di questa storia di stalking, le firme purtroppo sono molte. 7 SUGGERIMENTI PER CHI VIVE LO STALKING Eccoti alcuni consigli molto pratici che sono utili per non soccombere, per gestire le varie emozioni e per proteggersi dallo stalking. Che anche tu possa contribuire a interrompere la violenza, per tornare a vivere con serenità. Elena Mazzoleni Vuoi raccontarci anche tu la tua storia? Scrivici!

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Come ho cambiato vita

La mia vita si divide tra lavoro e lavoro. Non so chi sono. Ho dolori ovunque, prendo medicinali, ma non mi fermo. Devo aprire il bar domani. Mi dico: “se no come faccio? E i conti sono in rosso e l’affitto e i debiti e cosa penseranno di me i miei genitori…” E la mia ragazza. Da quanto non parliamo, da quanto non la ascolto, da quanto non mi ascolto?  Sento che l’ansia mi prende e stringe forte il petto. Piango, la mattina mentre vado al lavoro e la sera prima di addormentarmi. Sono stanco, dormo 5 o 6 ore a notte. Un giorno la mia ragazza mi guarda e dice cosa hai sulla lingua? Cosa sono quei pallini bianchi? Poi l’operazione, la paura, l’impotenza. Il non poter fare niente, come se fossi uno spettatore della mia vita. Tutto bene: operazione riuscita, ma il resto dei problemi c’è, e pesa! Mi rendo conto di essere in burn out. O meglio, i miei genitori mi fanno sedere ad un tavolo con la mia ragazza e io scoppio in lacrime. Mi rendo conto che non posso andare avanti così, devo allentare la presa, devo prendermi cura di me e della mia vita, dei miei affetti. Così alla mia ragazza capita in mano un libro che parla di meditazione, e poi un incontro speciale con Amma. Comincio a meditare. Comincio a cercare la mia strada. Dopo vendo l’attività e trovo un altro impiego. Piano piano cerco di rimettere insieme i cocci della mia vita, la meditazione mi ha aiutato, ora sento un contatto con me, anche se lieve, come una guida che cerca di farsi comprendere e che io raramente riesco ad ascoltare appieno. Sento che dentro me c’è molto e che spesso non lo comprendo, decido che forse è tempo di ascoltare realmente cosa ho dentro. La meditazione mi aiuta moltissimo, ma fermarsi soltanto a quel punto non mi porta crescita, decido di iscrivermi al corso di Core Counseling dell’associazione MoviMente. Neanche sapevo cosa fosse. Non avevo idea che la relazione d’aiuto potesse aiutare così tanto me stesso in primis e poi gli altri. Così un po’ spaesato telefono, chiedo un colloquio. Sono sincero: dico che non so nulla su cosa facciano e che non ho la minima esperienza, medito soltanto e decido di essere qua solo per seguire quella vocina interna che tanto ho ignorato. Ho trovato persone accoglienti e professionali. Fin dal primo colloquio sento che chi ho di fronte sente quello che sto dicendo, mi ascolta e comprende con il cuore. Non solo parole in quell’incontro, anche un lungo silenzio, con uno sguardo aperto sui nostri cuori. Mi ha profondamente toccato. In quel preciso momento ho capito che la strada era quella giusta. Non intendo che sarà o meno la mia professione, intendo dire che sono al posto giusto per la mia crescita personale, per sentirmi, per imparare a prendermi cura di me . Dopo un anno e mezzo di corso mi sento grato per aver permesso l’ ascoltarmi. Mi sento onorato di far parte di quel gruppo di persone che cercano di cambiare il proprio mondo. Vedo i cambiamenti in me e nei miei compagni di gruppo, mi riempie di gioia. Oggi più che mai, ho bisogno di guardarmi dentro e avere ben chiaro i miei intenti. La cosa più bella é che non servono prerequisiti speciali. Ho già tutto quello di cui necessito! Sebastiano

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Questa mattina ho danzato

Questa mattina, domenica 22 marzo 2020, ho danzato. Avevo scelto queste tracce musicali (in gran parte donatemi da Mario tempo fa), per farne una sequenza di movimento libero; ognuna di esse esprime un’energia unica, che se la si lascia entrare nel corpo, nell’anima, si esprime in un movimento, una danza appunto. Questa pratica me l’ha insegnata Elena Mazzoleni nei gruppi di MoviMente che ho frequentato per tanti anni, e che non smetterò mai di ringraziare. Noi siamo uniti corpo-anima-mente, ogni cellula “pensa”, ed ogni pensiero si traduce nel corpo. Di quel corpo di cui ci dimentichiamo spesso, almeno fino a quando non ci arriva qualche segnale o disagio.. E la qualità di quel movimento, (non di performance), mi connette a parti di me, unite nel corpo e nell’anima, e non dirette dalla testa. E queste parti si uniscono ad altre fuori di me, diventando di volta in volta, immagini, preghiere, sentimenti come la gratitudine, e molto altro. E che, sono convinta, siano curative. Mi sono arrivate spontaneamente visualizzazioni di protezione verso coloro che sono ammalati ed impauriti, verso tutti coloro che stanno aiutando gli altri, verso i miei cari. E immagini di elementi della natura che trasformano, ma necessitano del loro spazio, lo richiedono con urgenza: una terra che nutre, che si sta svegliando alla primavera, brulicante di vita; un’aria pulita, viva, ventosa, che porta nubi grandi e non si ferma; acqua che scorre, che lava, che disseta; e fuoco, tanto fuoco che riporta tutto alla cenere, alla rinascita. Una immagine mi ha commossa: il fuoco che sta bruciando tanti corpi riportandoli a puri elementi , e questi che ricadono sotto forma di piccole luci sui propri cari, sul mondo, ricordandoci che non è tutto finito, ma che ci dovremo ricordare di ogni riflessione fatta, di ogni lacrima, di ogni goccia di sudore, di ogni solitudine e pensiero cupo. Con una musica, e sdraiata a terra, ho visto il mio corpo che si univa alla terra con una infinità di radici giovani, e io fatta di erba e fiori. In un’altra mi sono vista circondata da una natura prepotente, rigogliosa, che mi circondava, cresceva intorno a me rendendomi più piccola; sotto il manto della  terra gallerie  percorse da piccole creature, e sopra ad essa, grandi creature per nulla minacciose. E con me, i miei cari, amici, e sconosciuti che come me si trovavano in quella insolita riunione. Ogni musica esprime un sentimento, una emozione che sono diversi a secondo del brano, ma anche per la sensibilità di ognuno di noi. E da ultima la marcia dei marines: portentosa per me nel suo “alleggerire” nonostante sia una marcia appunto. E con questo auguro una buona giornata, uniti del dolore e nella speranza. Elena Comotti Ringraziamo Elena Comotti per aver saputo aprire ed ascoltare il suo cuore e per aver condiviso questa sua esperienza di movimento del Core Counseling

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Ama il prossimo come te stesso

ama Devo ammettere che ho iniziato il corso di Core Counseling con molto poca umiltà, come se mi fossi iscritta per trovare conferma di ciò che già conoscevo, in seguito ad un mio precedente percorso personale, e non avessi più molto da imparare. Ero anche piuttosto infastidita dall’essere parte di un gruppo, dal momento che ho sempre evitato il “branco”, perché mi dava l’idea di gregge, di omologazione e di aspettative tipo “do per scontato che la pensiamo tutti allo stesso modo”. Sono quindi partita decisamente in chiusura, però ho deciso di continuare per uscire dalla mia “tana”. Ricordo di aver proprio pensato: “Se lascio, non avrò molte altre occasioni di conoscere persone nuove e diverse, e io e la mia vita saremo sempre le stesse”. Io ho sempre amato le novità e i cambiamenti, perché sono molto curiosa; mi sono anche spesso ficcata in situazioni strane per il gusto dell’avventura, ma di contro a volte sono piuttosto pigra e timorosa, quindi devo farmi un po’ di violenza per uscire dalla mia comfort zone. Ora sono molto contenta di aver fatto quello sforzo, perché in realtà ho imparato un sacco di cose nuove che mi stanno aiutando molto a migliorare la qualità della mia vita. Innanzitutto, rispetto al gruppo, ho capito una cosa importante. All’inizio io non sentivo di appartenervi, nonostante tutti fossero molto gentili e accoglienti con me; quindi ho compreso che il senso di appartenenza non mi viene dagli altri, ma da me stessa, nel momento in cui io decido di aprirmi e di appartenere. Inoltre, ho visto che era una mia fragilità quella di pensare di non poter essere me stessa in un gruppo; nessuno mi vieta, infatti, di esprimermi e di esporre le mie idee, se io ho la forza e la sicurezza di sostenerle. La mia esperienza era sempre stata quella di dover soccombere alla maggioranza; ma è anche vero che ho sempre visto due sole possibilità: o stare completamente in armonia o abbandonare. E qui arriviamo al lavoro sui bisogni e le richieste, che ho imparato al corso. Mi sono resa conto che io non esprimevo i miei sentimenti e i miei bisogni in maniera adeguata tanto da risultare comprensibili agli altri né tanto meno da poter fungere da confini. Un qualsiasi disagio io lo esprimevo o fuggendo o aggredendo o tutt’e due le cose insieme. Per mia esperienza i compromessi non erano nemmeno pensabili. Studiando la comunicazione non violenta e consapevole, sto vedendo che ci sono altre vie. Soprattutto la parte relativa ai bisogni è stata per me una novità! Io ero sì in grado di sentire cosa provavo, ma o ero ferma al giudizio mascherato, per cui mi sentivo “abbandonata, incompresa, ignorata, non vista etc…” e quindi senza speranza, perché messa così il tutto dipendeva dagli altri che mi “capissero, vedessero etc…”. Oppure, anche se riuscivo ad andare oltre, non convertivo mai il tutto in un bisogno. Ad esempio, in seguito ad una chiusura da parte di qualcuno io mi sentivo abbandonata; da lì mi dicevo “ok se sono abbandonata cosa sento? Che ho paura perché sono da sola e non posso farcela”. Ma non sapevo che ciò corrispondeva ad un bisogno di sicurezza (che sicuramente non è stato colmato da piccola, ma che ora posso soddisfare io stessa). Ora quindi parto dal giudizio mascherato, mi sposto sul sentimento vero che riguarda solo me, cioè “triste, sola, impaurita, indifesa…”, e posso pormi la domanda “cosa posso fare IO per non sentirmi così? Quale bisogno devo soddisfare? Attraverso quale strategia?”. In questo modo ho scoperto che alla fin fine molti bisogni possono essere soddisfatti all’interno di me. Ma è ben diverso da come facevo prima quando, per reazione al fatto che non ottenevo dagli altri ciò di cui avevo bisogno (inconsapevolmente tra l’altro), mi chiudevo e dicevo: “Mi arrangio da sola” (tanto da sentirmi Wonder Woman). Come contraltare ai giudizi negativi, mi sforzo (intanto non mi viene ancora molto spontaneo) di ascoltare e accettare le ragioni degli altri. Notare che per lavoro spesso devo dire dei “no” a bambini con comportamenti problematici, che ovviamente rispondono con rabbia e violenza!!! E infatti mi son sempre detta: “Brava, predichi bene e razzoli male!”. Questo lavoro sui bisogni mi sarà pertanto molto utile anche nel lavoro. Studiando la comunicazione non violenta, mi sono resa conto che io ho davvero un serio problema di gestione della rabbia. Ho sempre pensato di essere “avanti” perché io ero in grado di esprimerla (anche se non adeguatamente, come ora so); del resto per me era normale, perché nella mia famiglia usare toni di voce elevati e mandarsi a quel paese è all’ordine del giorno. Certo forse è meglio esprimerla così che reprimerla o non avvertirla proprio, ma io ritenevo i miei modi, che in realtà sono violenti, manifestazioni di un carattere passionale e focoso. Probabilmente non sarò mai pacata e posata, perché il mio temperamento è tutt’altro, però immagino che si possa essere contemporaneamente passionali e non violenti! Ora sto imparando ad avvicinare gli altri senza l’aspettativa che debbano soddisfare i miei bisogni. Faccio ancora molta fatica ad accettare i “no” e a tollerare la frustrazione che ne consegue. Di solito quando succede provo rabbia e la mente inizia a produrre una serie infinita di giudizi negativi. Quindi ora mi sforzo di stare con la rabbia (e di fare un bel respiro contando fino a….mille?), lascio scorrere i giudizi negativi, cerco di rintracciare il bisogno non soddisfatto e, se non sono possibili strategie alternative, resto in presenza amorevole anche con il dolore e la frustrazione di non poterlo colmare, almeno per quel momento. La Mindfulness mi ha aiutato molto ad osservarmi. Grazie al mio precedente percorso ero già allenata a sentire e a stare con ciò che accadeva dentro di me (pur con i limiti suddetti), ma lo facevo solo in presenza di un’emozione. Ora, invece, sempre più spesso nell’arco della giornata mi osservo, anche senza un motivo particolare, ma per il solo scopo di sentire che PROPRIO IO

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Sogni e realtà

sogni « Che ne è stato dei sogni di quando eravate bambini?»  È stata proprio questa domanda ad attirare la mia attenzione sfogliando una rivista francese di psicologia. Come non fermarsi a riflettere, non interrogarsi, non frugare nei meandri più reconditi della memoria – o forse del cuore – alla ricerca di quei sogni? Come non chiedersi se si sono realizzati o se, al contrario, sono rimasti accuratamente riposti sul fondo di un cassetto? La forza di quei sogni era tale da pervadere il corpo intero, sollecitare tutte le energie; che sensazioni suscitavano queste visioni oniriche a occhi aperti? Felicità, libertà, appagamento. Tutto sembrava possibile, persino diventare astronauti, famosi ballerini, attori, scrittori, sommozzatori… Non c’erano limiti.  Che sorte è toccata a quei sogni, o meglio che cosa ne abbiamo fatto? In che cosa si è trasformato l’entusiasmo con il quale annunciavamo che da grandi avremmo attraversato il Pacifico in barca a vela, visitato il Buthan in sacco a pelo, acquistato un cavallo, scoperto un’altra piramide, trovato la cura per una malattia rara?  A ben vedere qualche piccolo desiderio si è avverato, magari non siamo diventati esploratori, ma ci siamo concessi una vacanza avventurosa; non siamo diventate étoiles del balletto, ma abbiamo frequentato con piacere corsi di danza. Attimi di vita in cui il nostro bambino interiore ha gioito con soddisfazione dicendo «Ce l’ho fatta».  Magari alcuni di noi hanno avuto la caparbietà e quel pizzico di fortuna in più e sono oggi l’avvocato, l’interprete, il chirurgo che avevano sognato di diventare. Altri, al contrario, si sentono spettatori della propria vita: dissuasi dai familiari, disillusi dalle circostanze, obbligati dalla situazione economica o in nome di una presunta razionalità hanno intrapreso strade diverse da quelle che avevano creduto essere destinate loro, e adesso guardando il disegno di un serpente boa che digerisce un elefante non riescono a vedere altro che un cappello. Sono diventati adulti e non ricordano più di essere stati bambini.  L’autrice dell’articolo – una psicoanalista di nome Laurence Lemoine – segnala come «la malattia dell’anima occidentale», già diagnosticata da Carl Gustav Jung all’inizio del secolo scorso, sia ormai ampiamente diffusa: pessimismo crescente, sfiducia nei confronti delle istituzioni e del prossimo, sensazione di non essere giustamente valorizzati, senso di insoddisfazione e frustrazione, percezione di “vivere a metà” e, conseguentemente, voglia di abbandonare tutto e fuggire in un mondo utopicamente ideale.  Sognare un’altra vita o lasciarsi trascinare passivamente in questa?  Penso alla mia vita, agli anni trascorsi, ai giorni presenti, al futuro che deve ancora disvelarsi. Forse la soluzione è legittimare il proprio bisogno di realizzazione interiore, di autenticità. Il fine, la sfida è avere la forza, il coraggio di diventare se stessi – liberandosi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalla paura del giudizio degli altri – e seguire le proprie aspirazioni. Ho pensato spesso di aver fallito, di aver sprecato il tempo che mi è stato fino a ora concesso. Per anni sono stata talmente abituata a reprimere i miei desideri, la mia vera essenza, che non ricordo nemmeno più esattamente quali fossero i miei sogni, so solo che avrei voluto realizzare qualcosa di importante come sconfiggere la fame nel mondo, aiutare i bambini abbandonati, dare rifugio a tutti i cani e i gatti randagi, proteggere e ascoltare le persone deboli e indifese… Progetti ambiziosi, utopici.  Se la bambina che fui potesse vedermi, parlarmi, che cosa mi direbbe? Sarebbe contenta di come sono diventata? Riterrebbe realizzati i propri sogni? Probabilmente mi scruterebbe con i suoi grandi occhi sognanti, mi accarezzerebbe il viso disegnandone ogni ruga con le sue dita sottili, scuoterebbe il capo, poi mi prenderebbe per mano e mi inviterebbe a giocare, a saltare, a ballare, a disegnare, a liberare i colori che custodisco dentro di me.  Tempo fa, risvegliandomi in ambulanza dopo aver perso conoscenza in un incidente stradale, rividi in un istante la mia vita: una trentina di anni sfilarono di fronte a me simultaneamente; li guardai a uno a uno, come se solo in quel momento mi fosse stata data la facoltà di comprendere davvero ciò che era accaduto, e mi chiesi quale sarebbe stato il bilancio se la mia vita fosse finita in quel momento. Ci vollero un secondo incidente, un ginocchio fratturato, sei mesi di riabilitazione per convincermi che avevo sbagliato strada e che spettava a me invertire la rotta. Decisi di nuotare controcorrente: mollai il lavoro e ricominciai da zero, iscrivendomi nuovamente all’università…  Non importa se non siamo diventati archeologi, scienziati, se non abbiamo ricevuto un Nobel o non siamo stati a capo di una spedizione in Antartide, se non siamo diventate quelle che ci hanno indotto a credere siano le persone di successo: ciò che conta è cercare la propria essenza e concedersi il diritto di desiderare, di sognare, di essere felici… «Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto» (W. Shakespeare). Velda A. FB counseling

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MoviMente Counseling Mindfulness Core family - crescita personale e professionale

Il peso del vuoto

peso Da allora sono tramontati circa novemilaottocentocinquantacinque soli. Non ricordo esattamente il giorno, né l’ora, ricordo solo che era una fredda e umida mattina di marzo del 1994, diciassette anni compiuti da poco. Scalza, il corpo infreddolito coperto solo da una maglietta bianca – troppo lunga, troppo larga – ho guardato con orrore lampeggiare in carattere rosso il peso del mio goffo involucro mortale: 47. Lo stesso rito, compiuto una, due, tre, quattro volte al giorno, senza candele, senza preghiere, senza santi ai quali fare offerte: solo io con il mio dolore, il mio vuoto, solo quei numeri rossi lampeggianti, in caduta libera – 45, 43, 41, 38 –, mentre il mio corpo – odiosa zavorra  – spariva lentamente in vestiti troppo grandi per essere i miei. 5.50: il corpo abbandonato sotto un lenzuolo stropicciato, aspettavo a occhi chiusi nel silenzio del sole appena sorto che la sveglia suonasse frantumandomi l’anima, chiedendomi come ogni giorno di morire in una vita che non sentivo mia. Un’attesa angosciante, poi un cicalio improvviso, crescente e il vuoto riprendeva le forme di sempre: camicia, jeans, scarpe, uno zaino stanco di libri, quaderni, appunti ormai ingialliti, testimoni inconsapevoli della mia storia da riscrivere; i sogni, quelli no, rimanevano assopiti nel dormiveglia di un cassetto. In sella al mio scooter vagavo nell’inferno di strade e palazzi, respirando aria stantia di polvere e noia, troppo ossessionata dal senso del dovere o forse troppo vigliacca per non recarmi ogni mattina in quella scuola. Ripenso a occhi chiusi a quelle stanze, mattatoio per la mia anima, accecanti nella luce del giorno, spettrali nell’oscurità della notte, i muri intrisi di fumo, di voci, di vite consunte. Per arrivare in classe dovevo passare davanti a una chiesa, sulla porta c’era l’invito a entrare per recitare una preghiera di ringraziamento; osservavo gli zaini depositati all’ingresso: in collera con il mondo e forse anche con il cielo, ripetevo a me stessa che l’invito non mi riguardava, ero morta da tempo. Il mio fantasma entrava in classe, distribuiva i quaderni a compagni troppo impegnati a divertirsi per fare i compiti, poi giaceva inerme, guardando traballare le ore, in attesa che il suono della campanella segnasse la temporanea fine del supplizio.  Ero sola con «L’estranea inseparabile da me». I mesi correvano capricciosi, indistinguibili nell’alternarsi delle stagioni. I numeri rossi rotolavano come sassi dal pendio di una montagna – 37, 35, 34 –, io con essi. I capelli erano sempre più radi, sottili, sfibrati come paglia secca; gli occhi consunti dalle lacrime erano incavati, circondati da aloni violacei, gli zigomi sporgenti; le guance prosciugate lasciavano intravedere i denti che si consumavano; la vita indicibilmente sottile, le costole visibili a una a una; braccia e gambe nient’altro che ossa protese come rami secchi pronti a morire. Per ingannare la fame bevevo un litro di tè nero ogni giorno, passavo ore a sfogliare libri di ricette rigorosamente illustrati, oppure cucinavo e respirando il profumo del cibo il mio stomaco, ormai ridotto a una mela avvizzita, si convinceva di essere pieno. Non mettevo in bocca nulla che non fosse rigorosamente frammentato in piccoli pezzi, pesato, misurato, arrivai a bere con il cucchiaino per illudermi che il latte o il succo di frutta fossero molto più di mezzo bicchiere. Non c’era alimento del quale ignorassi il valore nutrizionale: il conteggio delle calorie era una vera e propria ossessione, una schiavitù. In realtà il mio corpo non aveva nemmeno un filo di adipe, ero un mucchio di ossa tenute approssimativamente insieme da uno strato sottile di pelle disidratata; antropofaga di me stessa, avevo ormai mangiato tutti i muscoli per sopravvivere qualche giorno in più.  Ero onesta con me e con gli altri: ammettevo di essere ammalata; avrei voluto, forse, ma non sapevo come salvarmi dal mio carnefice, che per giunta ospitavo in qualche anfratto del mio corpo. Dopo la maturità decisi più  meno consapevolmente di prolungare l’agonia iscrivendomi a Giurisprudenza. Il fumo della metropolitana, il fischio del treno, camminate interminabili in una Milano da odiare… Cambiava il teatro, la commedia era sempre la stessa. Una mela dimenticata sul fondo di uno zaino, un litro di tè nero al quale si era aggiunto un litro di caffè solubile, venti grammi di riso mangiati chicco a chicco, mezzo bicchiere di latte bevuto con il cucchiaino; il cuore che batteva lento per lo sforzo, il respiro sempre più affannoso, la vista annebbiata, i margini dei libri con l’annotazione della data e della frase di sveviana memoria ultimo digiuno.  Noiosissimi libri di diritto vomitati alla luce del giorno, intramontabili romanzi classici divorati nelle notti passate alla disperata ricerca di una risposta. Dormivo sempre meno, al massimo due ore per notte, avevo paura del sonno, temevo di non svegliarmi più. Vegliavo avvolta in chilometri di coperte incapaci di riscaldare quello che ormai era un involucro gelido, opalescente come il marmo di un obitorio. Non so trovare le parole per descrivere quel freddo: penetrava come un liquido iniettato in vena, entrava in circolo rapidamente, forse era pompato dal cuore al posto del sangue.  Gli sguardi disperati di chi crudelmente ancora mi amava e mi osservava impotente sparire, quelli abbassati di chi in me vedeva l’immagine della propria morte; le liti furiose dei miei genitori: la mia malattia era ormai diventata per loro un pretesto per abbandonarsi alle loro futili discussioni fondate sul nulla. Braccata da ricordi stinti e senza nome, nel tintinnio delle ore che passavano, mi sforzavo di ricordare la mia morte, in qualche luogo doveva pur essere avvenuta se ciò che sentivo non era un corpo, ma un dolore pressante. Un bagno di sudore freddo, una fitta in mezzo al petto, una vertigine nauseante, un brivido massacrante, poi il vuoto assoluto, improvviso, nel buio che feriva la vista mi sembrò di vedere il mio corpo: giaceva pallido, composto sul letto sfatto, le palpebre abbassate sull’ultimo tramonto, le labbra schiuse in una poesia interrotta; né fiori, né lacrime, né un lume acceso. Lo accarezzai in viso gridando silenziosamente « Il corpo è morto »; nessuno

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AutoGuarigione

guarigione Ero giovane e meditavo da alcuni anni. Quel giorno stavo partecipando ad un gruppo di meditazione e insegnamenti. Ero seduta sul mio cuscino con gli occhi chiusi e avevo un dolore al rene che mi impediva di rimanere concentrata sul respiro. Avevo sofferto anni prima di calcoli renali che mi avevano causato una dolorosa colica renale. Probabilmente un calcolo di nuovo si stava facendo sentire e mi disturbava. Sentivo il dolore in un punto preciso dietro la schiena, non era forte ma fastidioso. Decido di concentrare tutta la mia attenzione lì in quel punto anziché sul respiro. Era sicuramente un oggetto di concentrazione facile. Accade qualcosa che mi sorprende molto. Il dolore si fa più forte e acuto. Ad un certo punto diventa quasi insostenibile. Mi aiuto con il respiro per riuscire a sopportare il malessere costante e sempre più intenso. Mi fido. Continuo a respirare e in contatto con questo dolore che urla. Improvvisamente avviene come un’esplosione con un male acuto e subito dopo il dolore scompare completamente. Nella schiena rimane una sensazione di luce e spazio. Sento un grande senso di liberazione, è quasi gioia. Anche il rene sta bene e da allora non ha più avuto alcun sintomo. Successivamente in bagno mi libero delle scorie. Questo mi conferma che c’era qualcosa di materiale che provocava il fastidio iniziale. Nessun farmaco, nessun medico, nessun terapeuta! Un miracolo? Come è potuta accadere questa guarigione? Qui ho imparato a fidarmi del corpo, del suo processo. Oggi, quando pratico Counseling, posso stare accanto alla sofferenza dell’altro, senza volerla trasformare io a tutti i costi, con fiducia. Molti sorrisi ho visto sui visi di chi ho accompagnato. Nel Corso di Core Counseling con molta gioia insegno ad altre persone come accompagnare in questo magico processo di autoguarigione. Elena Mazzoleni FB

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Ora godo

Ora godoEra da parecchi anni che provavo a “far parlare” le mie emozioni, ma non avendo gli strumenti giusti, non conoscendo la pratica del Focusing, spesso faticavo a trovare il modo corretto per esprimere, cioè tradurre con le parole, quello che il mio corpo effettivamente sentiva. Attraverso le lezioni di Focusing e mettendo in atto gli insegnamenti del corso di Core Counseling, ho constatato che riesco a dar voce al mio sentire, alle mie emozioni, ai miei stati d’animo, al mio corpo nella sua totalità, alla mia parte più profonda, cioè quella più vera, quella che non mente, quella che sa sempre ciò che è giusto per me e ciò che invece non lo è. Tutto questo mi rende particolarmente felice, poiché mi rendo conto, sempre più spesso, che quando sento connessione, relazione e quindi unione tra mente, anima e corpo sto molto bene; vivo la vita godendo della bellezza e della libertà che essa dà. Roberta godo fb counseling

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Un sentiero

Grazie Elena!Per avermi accolto e guidato, con dolcezza e fermezza, sulla strada di una maggiore consapevolezza, verso quella che è ora una maggiore accettazione di me stessa.Un cammino faticoso come quando salgo in montagna: ascolto il mio respiro e i messaggi del mio corpo, rallento, prendo fiato, mi emoziono per la natura e mi godo il silenzio.E’ stato un cammino che mi ha permesso di guardare le mie paure, i miei limiti, le mie dipendenze ma anche di apprezzare le mie qualità. Un saluto e un abbraccio.Raffaella Mail ricevuta ad ottobre 2017 da Raffaella sentiero fb blog sentiero

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