Gennaio 2020

Ama il prossimo come te stesso

ama Devo ammettere che ho iniziato il corso di Core Counseling con molto poca umiltà, come se mi fossi iscritta per trovare conferma di ciò che già conoscevo, in seguito ad un mio precedente percorso personale, e non avessi più molto da imparare. Ero anche piuttosto infastidita dall’essere parte di un gruppo, dal momento che ho sempre evitato il “branco”, perché mi dava l’idea di gregge, di omologazione e di aspettative tipo “do per scontato che la pensiamo tutti allo stesso modo”. Sono quindi partita decisamente in chiusura, però ho deciso di continuare per uscire dalla mia “tana”. Ricordo di aver proprio pensato: “Se lascio, non avrò molte altre occasioni di conoscere persone nuove e diverse, e io e la mia vita saremo sempre le stesse”. Io ho sempre amato le novità e i cambiamenti, perché sono molto curiosa; mi sono anche spesso ficcata in situazioni strane per il gusto dell’avventura, ma di contro a volte sono piuttosto pigra e timorosa, quindi devo farmi un po’ di violenza per uscire dalla mia comfort zone. Ora sono molto contenta di aver fatto quello sforzo, perché in realtà ho imparato un sacco di cose nuove che mi stanno aiutando molto a migliorare la qualità della mia vita. Innanzitutto, rispetto al gruppo, ho capito una cosa importante. All’inizio io non sentivo di appartenervi, nonostante tutti fossero molto gentili e accoglienti con me; quindi ho compreso che il senso di appartenenza non mi viene dagli altri, ma da me stessa, nel momento in cui io decido di aprirmi e di appartenere. Inoltre, ho visto che era una mia fragilità quella di pensare di non poter essere me stessa in un gruppo; nessuno mi vieta, infatti, di esprimermi e di esporre le mie idee, se io ho la forza e la sicurezza di sostenerle. La mia esperienza era sempre stata quella di dover soccombere alla maggioranza; ma è anche vero che ho sempre visto due sole possibilità: o stare completamente in armonia o abbandonare. E qui arriviamo al lavoro sui bisogni e le richieste, che ho imparato al corso. Mi sono resa conto che io non esprimevo i miei sentimenti e i miei bisogni in maniera adeguata tanto da risultare comprensibili agli altri né tanto meno da poter fungere da confini. Un qualsiasi disagio io lo esprimevo o fuggendo o aggredendo o tutt’e due le cose insieme. Per mia esperienza i compromessi non erano nemmeno pensabili. Studiando la comunicazione non violenta e consapevole, sto vedendo che ci sono altre vie. Soprattutto la parte relativa ai bisogni è stata per me una novità! Io ero sì in grado di sentire cosa provavo, ma o ero ferma al giudizio mascherato, per cui mi sentivo “abbandonata, incompresa, ignorata, non vista etc…” e quindi senza speranza, perché messa così il tutto dipendeva dagli altri che mi “capissero, vedessero etc…”. Oppure, anche se riuscivo ad andare oltre, non convertivo mai il tutto in un bisogno. Ad esempio, in seguito ad una chiusura da parte di qualcuno io mi sentivo abbandonata; da lì mi dicevo “ok se sono abbandonata cosa sento? Che ho paura perché sono da sola e non posso farcela”. Ma non sapevo che ciò corrispondeva ad un bisogno di sicurezza (che sicuramente non è stato colmato da piccola, ma che ora posso soddisfare io stessa). Ora quindi parto dal giudizio mascherato, mi sposto sul sentimento vero che riguarda solo me, cioè “triste, sola, impaurita, indifesa…”, e posso pormi la domanda “cosa posso fare IO per non sentirmi così? Quale bisogno devo soddisfare? Attraverso quale strategia?”. In questo modo ho scoperto che alla fin fine molti bisogni possono essere soddisfatti all’interno di me. Ma è ben diverso da come facevo prima quando, per reazione al fatto che non ottenevo dagli altri ciò di cui avevo bisogno (inconsapevolmente tra l’altro), mi chiudevo e dicevo: “Mi arrangio da sola” (tanto da sentirmi Wonder Woman). Come contraltare ai giudizi negativi, mi sforzo (intanto non mi viene ancora molto spontaneo) di ascoltare e accettare le ragioni degli altri. Notare che per lavoro spesso devo dire dei “no” a bambini con comportamenti problematici, che ovviamente rispondono con rabbia e violenza!!! E infatti mi son sempre detta: “Brava, predichi bene e razzoli male!”. Questo lavoro sui bisogni mi sarà pertanto molto utile anche nel lavoro. Studiando la comunicazione non violenta, mi sono resa conto che io ho davvero un serio problema di gestione della rabbia. Ho sempre pensato di essere “avanti” perché io ero in grado di esprimerla (anche se non adeguatamente, come ora so); del resto per me era normale, perché nella mia famiglia usare toni di voce elevati e mandarsi a quel paese è all’ordine del giorno. Certo forse è meglio esprimerla così che reprimerla o non avvertirla proprio, ma io ritenevo i miei modi, che in realtà sono violenti, manifestazioni di un carattere passionale e focoso. Probabilmente non sarò mai pacata e posata, perché il mio temperamento è tutt’altro, però immagino che si possa essere contemporaneamente passionali e non violenti! Ora sto imparando ad avvicinare gli altri senza l’aspettativa che debbano soddisfare i miei bisogni. Faccio ancora molta fatica ad accettare i “no” e a tollerare la frustrazione che ne consegue. Di solito quando succede provo rabbia e la mente inizia a produrre una serie infinita di giudizi negativi. Quindi ora mi sforzo di stare con la rabbia (e di fare un bel respiro contando fino a….mille?), lascio scorrere i giudizi negativi, cerco di rintracciare il bisogno non soddisfatto e, se non sono possibili strategie alternative, resto in presenza amorevole anche con il dolore e la frustrazione di non poterlo colmare, almeno per quel momento. La Mindfulness mi ha aiutato molto ad osservarmi. Grazie al mio precedente percorso ero già allenata a sentire e a stare con ciò che accadeva dentro di me (pur con i limiti suddetti), ma lo facevo solo in presenza di un’emozione. Ora, invece, sempre più spesso nell’arco della giornata mi osservo, anche senza un motivo particolare, ma per il solo scopo di sentire che PROPRIO IO

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Sogni e realtà

sogni « Che ne è stato dei sogni di quando eravate bambini?»  È stata proprio questa domanda ad attirare la mia attenzione sfogliando una rivista francese di psicologia. Come non fermarsi a riflettere, non interrogarsi, non frugare nei meandri più reconditi della memoria – o forse del cuore – alla ricerca di quei sogni? Come non chiedersi se si sono realizzati o se, al contrario, sono rimasti accuratamente riposti sul fondo di un cassetto? La forza di quei sogni era tale da pervadere il corpo intero, sollecitare tutte le energie; che sensazioni suscitavano queste visioni oniriche a occhi aperti? Felicità, libertà, appagamento. Tutto sembrava possibile, persino diventare astronauti, famosi ballerini, attori, scrittori, sommozzatori… Non c’erano limiti.  Che sorte è toccata a quei sogni, o meglio che cosa ne abbiamo fatto? In che cosa si è trasformato l’entusiasmo con il quale annunciavamo che da grandi avremmo attraversato il Pacifico in barca a vela, visitato il Buthan in sacco a pelo, acquistato un cavallo, scoperto un’altra piramide, trovato la cura per una malattia rara?  A ben vedere qualche piccolo desiderio si è avverato, magari non siamo diventati esploratori, ma ci siamo concessi una vacanza avventurosa; non siamo diventate étoiles del balletto, ma abbiamo frequentato con piacere corsi di danza. Attimi di vita in cui il nostro bambino interiore ha gioito con soddisfazione dicendo «Ce l’ho fatta».  Magari alcuni di noi hanno avuto la caparbietà e quel pizzico di fortuna in più e sono oggi l’avvocato, l’interprete, il chirurgo che avevano sognato di diventare. Altri, al contrario, si sentono spettatori della propria vita: dissuasi dai familiari, disillusi dalle circostanze, obbligati dalla situazione economica o in nome di una presunta razionalità hanno intrapreso strade diverse da quelle che avevano creduto essere destinate loro, e adesso guardando il disegno di un serpente boa che digerisce un elefante non riescono a vedere altro che un cappello. Sono diventati adulti e non ricordano più di essere stati bambini.  L’autrice dell’articolo – una psicoanalista di nome Laurence Lemoine – segnala come «la malattia dell’anima occidentale», già diagnosticata da Carl Gustav Jung all’inizio del secolo scorso, sia ormai ampiamente diffusa: pessimismo crescente, sfiducia nei confronti delle istituzioni e del prossimo, sensazione di non essere giustamente valorizzati, senso di insoddisfazione e frustrazione, percezione di “vivere a metà” e, conseguentemente, voglia di abbandonare tutto e fuggire in un mondo utopicamente ideale.  Sognare un’altra vita o lasciarsi trascinare passivamente in questa?  Penso alla mia vita, agli anni trascorsi, ai giorni presenti, al futuro che deve ancora disvelarsi. Forse la soluzione è legittimare il proprio bisogno di realizzazione interiore, di autenticità. Il fine, la sfida è avere la forza, il coraggio di diventare se stessi – liberandosi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalla paura del giudizio degli altri – e seguire le proprie aspirazioni. Ho pensato spesso di aver fallito, di aver sprecato il tempo che mi è stato fino a ora concesso. Per anni sono stata talmente abituata a reprimere i miei desideri, la mia vera essenza, che non ricordo nemmeno più esattamente quali fossero i miei sogni, so solo che avrei voluto realizzare qualcosa di importante come sconfiggere la fame nel mondo, aiutare i bambini abbandonati, dare rifugio a tutti i cani e i gatti randagi, proteggere e ascoltare le persone deboli e indifese… Progetti ambiziosi, utopici.  Se la bambina che fui potesse vedermi, parlarmi, che cosa mi direbbe? Sarebbe contenta di come sono diventata? Riterrebbe realizzati i propri sogni? Probabilmente mi scruterebbe con i suoi grandi occhi sognanti, mi accarezzerebbe il viso disegnandone ogni ruga con le sue dita sottili, scuoterebbe il capo, poi mi prenderebbe per mano e mi inviterebbe a giocare, a saltare, a ballare, a disegnare, a liberare i colori che custodisco dentro di me.  Tempo fa, risvegliandomi in ambulanza dopo aver perso conoscenza in un incidente stradale, rividi in un istante la mia vita: una trentina di anni sfilarono di fronte a me simultaneamente; li guardai a uno a uno, come se solo in quel momento mi fosse stata data la facoltà di comprendere davvero ciò che era accaduto, e mi chiesi quale sarebbe stato il bilancio se la mia vita fosse finita in quel momento. Ci vollero un secondo incidente, un ginocchio fratturato, sei mesi di riabilitazione per convincermi che avevo sbagliato strada e che spettava a me invertire la rotta. Decisi di nuotare controcorrente: mollai il lavoro e ricominciai da zero, iscrivendomi nuovamente all’università…  Non importa se non siamo diventati archeologi, scienziati, se non abbiamo ricevuto un Nobel o non siamo stati a capo di una spedizione in Antartide, se non siamo diventate quelle che ci hanno indotto a credere siano le persone di successo: ciò che conta è cercare la propria essenza e concedersi il diritto di desiderare, di sognare, di essere felici… «Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto» (W. Shakespeare). Velda A. FB counseling

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MoviMente Counseling Mindfulness Core family - crescita personale e professionale

Il peso del vuoto

peso Da allora sono tramontati circa novemilaottocentocinquantacinque soli. Non ricordo esattamente il giorno, né l’ora, ricordo solo che era una fredda e umida mattina di marzo del 1994, diciassette anni compiuti da poco. Scalza, il corpo infreddolito coperto solo da una maglietta bianca – troppo lunga, troppo larga – ho guardato con orrore lampeggiare in carattere rosso il peso del mio goffo involucro mortale: 47. Lo stesso rito, compiuto una, due, tre, quattro volte al giorno, senza candele, senza preghiere, senza santi ai quali fare offerte: solo io con il mio dolore, il mio vuoto, solo quei numeri rossi lampeggianti, in caduta libera – 45, 43, 41, 38 –, mentre il mio corpo – odiosa zavorra  – spariva lentamente in vestiti troppo grandi per essere i miei. 5.50: il corpo abbandonato sotto un lenzuolo stropicciato, aspettavo a occhi chiusi nel silenzio del sole appena sorto che la sveglia suonasse frantumandomi l’anima, chiedendomi come ogni giorno di morire in una vita che non sentivo mia. Un’attesa angosciante, poi un cicalio improvviso, crescente e il vuoto riprendeva le forme di sempre: camicia, jeans, scarpe, uno zaino stanco di libri, quaderni, appunti ormai ingialliti, testimoni inconsapevoli della mia storia da riscrivere; i sogni, quelli no, rimanevano assopiti nel dormiveglia di un cassetto. In sella al mio scooter vagavo nell’inferno di strade e palazzi, respirando aria stantia di polvere e noia, troppo ossessionata dal senso del dovere o forse troppo vigliacca per non recarmi ogni mattina in quella scuola. Ripenso a occhi chiusi a quelle stanze, mattatoio per la mia anima, accecanti nella luce del giorno, spettrali nell’oscurità della notte, i muri intrisi di fumo, di voci, di vite consunte. Per arrivare in classe dovevo passare davanti a una chiesa, sulla porta c’era l’invito a entrare per recitare una preghiera di ringraziamento; osservavo gli zaini depositati all’ingresso: in collera con il mondo e forse anche con il cielo, ripetevo a me stessa che l’invito non mi riguardava, ero morta da tempo. Il mio fantasma entrava in classe, distribuiva i quaderni a compagni troppo impegnati a divertirsi per fare i compiti, poi giaceva inerme, guardando traballare le ore, in attesa che il suono della campanella segnasse la temporanea fine del supplizio.  Ero sola con «L’estranea inseparabile da me». I mesi correvano capricciosi, indistinguibili nell’alternarsi delle stagioni. I numeri rossi rotolavano come sassi dal pendio di una montagna – 37, 35, 34 –, io con essi. I capelli erano sempre più radi, sottili, sfibrati come paglia secca; gli occhi consunti dalle lacrime erano incavati, circondati da aloni violacei, gli zigomi sporgenti; le guance prosciugate lasciavano intravedere i denti che si consumavano; la vita indicibilmente sottile, le costole visibili a una a una; braccia e gambe nient’altro che ossa protese come rami secchi pronti a morire. Per ingannare la fame bevevo un litro di tè nero ogni giorno, passavo ore a sfogliare libri di ricette rigorosamente illustrati, oppure cucinavo e respirando il profumo del cibo il mio stomaco, ormai ridotto a una mela avvizzita, si convinceva di essere pieno. Non mettevo in bocca nulla che non fosse rigorosamente frammentato in piccoli pezzi, pesato, misurato, arrivai a bere con il cucchiaino per illudermi che il latte o il succo di frutta fossero molto più di mezzo bicchiere. Non c’era alimento del quale ignorassi il valore nutrizionale: il conteggio delle calorie era una vera e propria ossessione, una schiavitù. In realtà il mio corpo non aveva nemmeno un filo di adipe, ero un mucchio di ossa tenute approssimativamente insieme da uno strato sottile di pelle disidratata; antropofaga di me stessa, avevo ormai mangiato tutti i muscoli per sopravvivere qualche giorno in più.  Ero onesta con me e con gli altri: ammettevo di essere ammalata; avrei voluto, forse, ma non sapevo come salvarmi dal mio carnefice, che per giunta ospitavo in qualche anfratto del mio corpo. Dopo la maturità decisi più  meno consapevolmente di prolungare l’agonia iscrivendomi a Giurisprudenza. Il fumo della metropolitana, il fischio del treno, camminate interminabili in una Milano da odiare… Cambiava il teatro, la commedia era sempre la stessa. Una mela dimenticata sul fondo di uno zaino, un litro di tè nero al quale si era aggiunto un litro di caffè solubile, venti grammi di riso mangiati chicco a chicco, mezzo bicchiere di latte bevuto con il cucchiaino; il cuore che batteva lento per lo sforzo, il respiro sempre più affannoso, la vista annebbiata, i margini dei libri con l’annotazione della data e della frase di sveviana memoria ultimo digiuno.  Noiosissimi libri di diritto vomitati alla luce del giorno, intramontabili romanzi classici divorati nelle notti passate alla disperata ricerca di una risposta. Dormivo sempre meno, al massimo due ore per notte, avevo paura del sonno, temevo di non svegliarmi più. Vegliavo avvolta in chilometri di coperte incapaci di riscaldare quello che ormai era un involucro gelido, opalescente come il marmo di un obitorio. Non so trovare le parole per descrivere quel freddo: penetrava come un liquido iniettato in vena, entrava in circolo rapidamente, forse era pompato dal cuore al posto del sangue.  Gli sguardi disperati di chi crudelmente ancora mi amava e mi osservava impotente sparire, quelli abbassati di chi in me vedeva l’immagine della propria morte; le liti furiose dei miei genitori: la mia malattia era ormai diventata per loro un pretesto per abbandonarsi alle loro futili discussioni fondate sul nulla. Braccata da ricordi stinti e senza nome, nel tintinnio delle ore che passavano, mi sforzavo di ricordare la mia morte, in qualche luogo doveva pur essere avvenuta se ciò che sentivo non era un corpo, ma un dolore pressante. Un bagno di sudore freddo, una fitta in mezzo al petto, una vertigine nauseante, un brivido massacrante, poi il vuoto assoluto, improvviso, nel buio che feriva la vista mi sembrò di vedere il mio corpo: giaceva pallido, composto sul letto sfatto, le palpebre abbassate sull’ultimo tramonto, le labbra schiuse in una poesia interrotta; né fiori, né lacrime, né un lume acceso. Lo accarezzai in viso gridando silenziosamente « Il corpo è morto »; nessuno

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