Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera

Cinque stagioni, un tempo circolare destinato a ripetersi all’infinito, scandito ogni dieci anni da una porta di legno che si apre cigolando, disvelando il laghetto sul quale fluttua un piccolo tempio buddista galleggiante. Una porta metaforica che separa una dimensione ascetica, spirituale immersa in una natura di impervia bellezza, dalla corruzione del mondo, della vita mondana. Mezzo secolo è necessario affinché il protagonista – prigioniero di conflitti interiori, passioni e istinti – compia il percorso di crescita, caduta, espiazione e ascesa che lo condurrà alla saggezza. 

Dalla primavera dell’infanzia – ossimoricamente innocente e crudele – in cui il bambino viene educato con pazienza e dedizione da un monaco al rispetto di tutti gli esseri viventi e agli altri valori buddisti, all’estate dell’adolescenza, in cui gli istinti e le passioni esplodono prepotentemente, trascinando il giovane protagonista nella cruda realtà del mondo urbano; dall’autunno dei pensieri mortali e dell’attaccamento che originano ossessione, colpa e pena, all’inverno del ritorno alla spiritualità e della quiete raggiunta portando a compimento una sorta di cammino catartico; per tornare infine al disgelo della primavera in cui la vita della natura e il tempo ricominciano a fluire con un bimbo abbandonato che verrà educato nel piccolo tempio galleggiante. 

Le azioni del monaco e quelle del suo discepolo appaiono sospese fuori dal tempo, in una dimensione altra in cui la fatica di vivere viene affrontata dal regista coreano Kim Ki-Duk nella sua essenza primigenia, mostrando come la mente dell’uomo sia inquinata, offuscata da desideri, sentimenti, emozioni che se non dominati non possono che creare sofferenza. 


Il concetto di karma è magistralmente illustrato dal pesante masso che il bambino prima e il giovane uomo poi, sono chiamati a trascinare, espressione inequivocabile di come ognuno di noi debba farsi carico delle proprie azioni, delle proprie responsabilità e degli effetti che ne derivano. 

Con uno stile narrativo semplice, seppur tutt’altro che scontato, poetico e nel contempo sconcertante nei momenti di maggior tensione, Kim Ki-Duk ha dato vita a un’opera cinematografica inusuale e per ciò stesso grandiosa, in cui il silenzio – tradotto per gli spettatori in musica dai ritmi sacri – e i gesti sono spesso più eloquenti di mille parole.

Velda A.